Spazio, essere, voragine, burrone

Spazio, essere, voragine, burrone

Spazio, essere, voragine, burrone

Di Angelo Giubileo©

Spazi, credit Mary Blindflowers©

 

Spazio è ogni “ambito” in cui è possibile che sia l’essere, interamente, che le cose, separatamente, accadono (“e-ventum” al sing., “e-venti” al plur.;lett.venuto o venuti fuori da). Essenzialmente, con il termine spazio – e, secondo la scienza della fisica moderna, più propriamente con il termine “campo” – si rappresenta il luogo, figurato e non, delimitato da un “andare attorno” (da ambire, andare attorno; participio passato = ambito, andato attorno). E tuttavia, nell’ambito della fisica, che definirei postparmenidea, la concezione dello spazio si avvale anche di un altro elemento, non generico ma distintivo, che accompagna anche il linguaggio della fisica moderna, ed è il concetto di tempo. Così che, si discute piuttosto di uno spazio-tempo, che non sarebbe più “eterno”, ma, “in movimento” e quindi riguarderebbe – come dice Aristotele – la “trasformazione delle cose”.

Al contrario degli “antichissimi”, come li appella Aristotele, che infatti ritenevano, non senza un’ambizione che definirei maggiore quanto a “capacità e potenza”, ovvero “possibilità”, che lo spazio originario dal quale hanno inizio tutte le cose, fosse “eterno”. A tale proposito,  sintetizza Esiodo nel discorso della Teogonia (v. 116) che: “in principio fu il caos”. E infatti, il termine greco antico “Chaos” viene reso come “Spazio beante”, “Spazio aperto”, (ma anche) “Voragine” e indica, nella sua etimologia, “fesso, fenditura, burrone”, quindi simbolicamente “abisso” dove sono “tenebrosità, oscurità” (wikipedia). Lo strappo di Aristotele alla “tradizione” accademica di allora, non senza un’ambizione che definirei minore quanto a “capacità e potenza”, ovvero possibilità, avviene in scia alla rappresentazione di Platone, che definiva il “tempo, sembianza mobile dell’eternità”. Così che, lo “spazio beante” e “aperto” divenne piuttosto una “voragine”, “ferita”, “burrone”, “abisso”, “tenebre” e “oscurità”, laddove in particolare questi stessi termini sono usati anche oggi dalla maggior parte dei fisici, e non solo.

Nella pratica, quotidiana, Aristotele e in genere i filosofi (philosophoi) post-socratici compiono un vero e proprio  atto di evirazioneCrono diviene associato al tempo e la sua sconfitta, significa eliminare lo scorrere del tempo ed arrivare ad uno stato di eternità, altro significato che assume l’evirazione, con l’eliminazione del ciclo naturale. Zeus interrompe il ciclo della detronizzazione del vecchio re, ponendosi fuori dal tempo e divenendo re del tempo (V. Foschi): Auctor temporis.

Ma anche gli antichi, non solo gli antichissimi, sapevano bene che l’eternità esclude il moto. Tanto che sarà Plutarco a sentenziare validamente ed efficacemente che “maggiori” sono le aporie determinate dall’introduzione del nuovo “sistema” o, pur sempre, spazio di riferimento. Uno spazio che, nell’accezione aristotelica, viene separato e quindi diviso in “fisico” e “meta-fisico”. Ed eventualmente riunito, ma solo formalmente, seguendo un passato che appartiene anche alla metafisica di Emanuele Severino, in una condizione o stato di “attesa e ciò che è atteso”. Similmente, uno sguardogettato (alla maniera dei greci) verso il futuro che, tuttavia, esclude e quindi di fatto annienta (!) la dimensione integrale o ambito (andato intorno) del presente e quindi dell’essere, che, viceversa, dice Parmenide: “è” (Frammento 7/8, v. 7).

In Punto, linea, superficie, W. Kandinsky intende fondare una scienza dell’arte – che secondo l’ancora attuale senso comune si ritiene appartenga al mondo della creatività, e invece come rileva R. Calasso cela nel suo intimo “un rimando all’ordine, all’articolazione giusta che è nella radice (vedica)ar- (da cui il latino ars, artus – e anche ritus)” -, e a tale scopo introduce al concetto di rappresentazione artistica, che, in effetti, prende le sembianze di “una metafisica della forma, ben più che il progetto di una scienza esatta” (In Adelphi edizione n. 38).

L’incipit del saggio è: Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere. Queste due maniere non sono arbitrarie, ma legate ai fenomeni – esse vengono derivate dalla natura dei fenomeni, da due loro proprietà: Esterno – Interno. Ciò vuole significare che la stessa opera d’arte può essere intesa sia nell’ambito del “recinto estetico” (Adelphi, ibidem) della rappresentazione, solitamente una tela, che l’autore descrive limitata, in ogni caso e formalmente, da due linee orizzontali e due verticali, oppure da una linea curva (per la tela a formato ellittico). E invece, secondo il giudizio dell’autore, l’opera dovrebbe essere intesa viceversa – come “la forma, in ogni sua specie – naturale e artificiale – manifestazione significante di una realtà, tensione di forze, e solo in rapporto al suo sottofondo invisibile può essere compresa” (ibidem).

E quindi, è confermato anche qui che il termine metafisica debba intendersi quale espressione della separazione e divisione dello spazio o ambitocreativo, oltre che come rappresentazione formale di un qualcosa, che, in quanto creazione, secondo il senso che potremmo ancora dire comune, sembra provenga dal “nulla”. Verso l’esterno, così come per ogni spazio generico, anche l’ambito meta-fisico è delimitato mediante un movimento, che consiste nell’essere andato tutt’attorno; ma, verso l’interno del proprio spazio, trascendente, lo spazio meta-fisico è separato e diviso dallo spazio fisico,immanente. Ed è così chiaro che, viceversa per noi, valga invece la pena di andare tutto intorno al “ciclo naturale” e quindi allo spazio fisico (né separato né diviso) delle cose in trasformazione. E anticipo che sarebbe un errore ritenere che in ciò non consista affatto il senso comune.

Ma, prima di esaminare ciò, come possiamo ulteriormente intendere ciò che all’immaginazione, potremmo dire, si apre oltre la delimitazione del tutt’attorno? Ripetiamo, si direbbe comunemente del “nulla”, ma quando usiamo questo termine cosa intendiamo di preciso? Perché, premettiamo subito che Parmenide non può non avere ragione nell’affermare che l’essere è e non può non essere a differenza del non essere che non è e non può essere.

Al discorso dell’Eleate compete appieno una rappresentazione, che è ancorché nota, relativa al paradosso di Achille e la tartaruga. Una delle descrizioni più famose del paradosso è dello scrittore argentino Jorge Luis Borges: “Achille, simbolo di rapidità, deve raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Achille corre dieci volte più svelto della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così via all’infinito; di modo che Achille può correre per sempre senza raggiungerla”. Con maggiore ambizione, vorremmo tuttavia anche chiederci: oltre il percorso, e quindi la “distanza” che divide i due protagonisti della narrazione, com’è possibile stabilire esattamente quale sia il punto d’inizio nello spazio della contesa senza immaginare che oltre (o al di là) non vi sia, per così dire, altro che il “nulla”?

Tralasciamo per ora, brevemente, l’ipotesi serissima che l’osservatore quale che sia possa, in qualche modo (?!), influenzare la rappresentazione.

Cosa intendevano esattamente i primi fisici, e non solo loro, quando discutono di “vuoto” o altrimenti a dirsi di “nulla”? L’assimilazione dei due termini può dirsi acquisita anche per mezzo di una nota affermazione del vescovo d’Ippona, Agostino, il quale interrogato sulla presenza in origine del male si traeva dall’impaccio dicendo che “il male” non fosse altro che la mancanza di “il bene”. In tal modo, o meglio in qualche modo definito se non in forma di un negativo, quasi fosse l’immagine latente o oscura di una fotografia, il filosofo cristiano tentava, senza riuscirci, di ri-solvere l’aporia “più grande” – avrebbe sottolineato Plutarco – della creazione da “il nulla” che, per la teologia cristiana, possa dirsi “assoluto”. E invece, anche in base al predetto escamotage, esso tutt’al più potrebbe dirsi “relativo” al “Sommo Bene” o Dio che, secondo la teologia e non solo cristiana, oltre che nello spazio eterno sarebbe anche all’inizio del tempo.

Pertanto, il vuoto è anch’esso uno spazio o topos (che sta per “luogo comune”), che non è mai stato concepito come “assoluto”. Sia esso chiamato con il nome di “vuoto”, da Democrito e altri, di “etere”, da Aristotele e altri, o di “campo”, in particolare da Michelson e Morley. Per i quali, un “campo” non è altro che una regione di spazio di nuovo chiamata “vuoto” con delle proprietà, come a esempio il fatto di essere portatore delle onde elettromagnetiche. Se uno spazio è detto vuoto non significa che non contenga né luce né aria. E per questa via del discorso, giungeremmo presto ai dibattiti della fisica meccanica più recente circa la possibilità che un “buco nero” non lasci sfuggire dal suo interno verso l’esterno nemmeno la luce o l’ipotesi che sia circa il 90% della massa che circa il 70% dell’energia, presenti entrambe nell’universo, siano “oscure”, ovvero: non direttamente osservabili.  

E quindi, ritornando al paradosso di Zenone, non resta ora che interrogarci anche sul ruolo dell’osservatore, quale che sia. Intendendo “quale che sia”, un osservatore gettato o calato oltre che nello spazio anche nel tempo, passato presente o futuro, che sia.

Infatti, la ri-soluzione logica del paradosso si manifesta in epoca piuttosto recente, divenendo pienamente accessibile nell’ambito della categoria dei numeri “immaginari”. Così ha validamente ed efficacemente sintetizzato, la scoperta, P. Watzlawick: “Tutti i numeri sono positivi, negativi o zero. Di conseguenza ogni numero che non sia positivo o zero è negativo e ogni numero che non sia negativo o zero deve essere positivo. E come la mettiamo allora con l’apparentemente innocua equazione X²+1=0? Se spostiamo l’1 dall’altro lato dell’equazione, otteniamo che X²=-1, e quindi che x =√-1. In un universo concettuale costruito in modo tale che ogni numero può essere solamente positivo, negativo o zero, tale risultato è però inimmaginabile, perché quale numero moltiplicato per se stesso (elevato al quadrato) può dare il risultato di -1? L’analogia di questa impasse con il dilemma paradossale precedentemente citato, che nasce in un mondo basato sul concetto di vero e falso e del terzo escluso, è ovvia. Tuttavia, per quanto immaginabile o inimmaginabile essa sia, matematici, fisici e ingegneri hanno già accettato con equanimità la radice quadrata di -1, le hanno assegnato il simbolo i (che significa immaginario), l’hanno inclusa nei loro calcoli al pari delle altre tre (immaginabili) categorie numeriche (positivo, negativo e zero), e con essa hanno ottenuto risultati pratici, concreti e perfettamente immaginabili”.

Gli antichissimi lo sapevano già, il loro spazio di avventura e di ricerca non poteva contenere limiti. Direste che questa “visione” non fa parte del senso comune? Se diceste sì, sbagliereste! Per il semplice fatto che l’avventura e la ricerca di ciò che imputiamo alla natura umana (?!) dura da sempre. Anche se “sempre” è un termine del linguaggio comune che proprio non mi appartiene.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

https://www.youtube.com/watch?v=956fFdHcqxE

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