Mussapi e le imprese dei capitani coraggiosi

Mussapi e le imprese dei capitani coraggiosi

Mussapi e le imprese dei capitani coraggiosi

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

La via del mare, credit Mary Blindflowers©

 

Se il leggendario capitano Shackleton, esploratore di origine irlandese, fosse vissuto fino ai nostri giorni, probabilmente avrebbe fatto gli occhi neri a critici e mediocri poeti che parlano di lui. Il cavalier Shackleton divenne famoso in seguito alla Imperial Trans-Antarctic Expedition, anni 1914-1916, durante i quali, il nostro eroe, nonostante la nave Endurance fosse stata danneggiata per poi inabissarsi a causa dei blocchi di ghiaccio, riuscì a portare in salvo tutto l’equipaggio che ha avuto la grandissima fortuna di non avere per capitano un mediocre qualsiasi pusillanime Schettino, ma un uomo con gli attributi.

Così i poeti cantano le imprese dei capitani coraggiosi e pubblicano le loro poesie coi grandi editori.

La lirica che segue è di Roberto Mussapi, amico di Mario Luzi e Attilio Bertolucci, editorialista, drammaturgo, traduttore, direttore di collana, insomma roba grossa. Si intitola la terra incerta.

La terra incerta

Ci furono momenti di illusione e panico,
in quella infinita vacanza d’inverno.
Ogni momento durava ore e giorni,
ma rivissuto appare un attimo,
incastonato com’era nel buio assoluto
della notte polare senza luce e tempo.
Tre volte i ghiacci si sciolsero
attorno alla chiglia, e tentammo la fuga,
tre volte intensificarono la stretta
cercando di stritolarci nell’abbraccio
quando ci era preclusa ogni scelta
per l’incertezza dello strato oscillante,
non sufficientemente ghiaccio né acqua,
non navigabile o percorribile a piedi.
Panico e illusione non sempre
distinti,
ma crudelmente, crudelmente
avvinti.
Alle dieci di mattina del primo agosto,
mentre i conduttori di slitte spalavano
la neve accanto alle cucce dei cani,
una forte scossa attraversò il blocco,
seguita da uno scricchiolio lunghissimo:
l’
Endurance si sollevò a sinistra
e ricadde nell’acqua rollando.
Il banco si era spezzato e la nave era libera.
Shackleton salì sul ponte e noi lo seguimmo.
Diede ordine di portare i cani a bordo,
e in otto minuti la cosa fu fatta.
Mentre ritiravamo la scala reale,
la nave si mosse di colpo di fianco e in avanti,
spinta dalla forza del ghiaccio
che la premeva di lato e di sotto.
La lastra che l’aveva imprigionata e protetta
ora battendo sulla fiancata frantumava
le piccole cucce di ghiaccio costruite
per proteggere i cani di notte.
Per quindici minuti la morsa crebbe
finché spinta da poppa la prua dell’Endurance
montò lentamente su una lastra.
La sentimmo salire con la salvezza
mentre il ghiaccio si riassestava attorno.
La nave rimase con la prua sollevata
inclinata cinque gradi a sinistra.
Avevamo allestito le scialuppe
e gli abiti più caldi, per evacuarla,
ma come all’inizio era stato illusorio
lo sciogliersi dei ghiacci, era fallita
la loro presa definitiva e mortale.
Se qualcosa avesse impedito alla nave di alzarsi
lo scafo si sarebbe sgretolato
come un guscio d’uovo tra due dita.
Nel frantumarsi e ricomporsi dei ghiacci
un grosso lastrone del vecchio blocco
era rimasto
intatto ma inclinato
e le tracce delle slitte che l’avevano solcato
sembravano in salita.
Riprendemmo le partite di football sul ghiaccio,
istruivamo i cuccioli al traino,
al Ritz tornarono musica e Shakespeare,
Lanterna Magica e partite a carte.

La notte antartica andava scemando.
Da tre arrivammo a sette ore di luce,
senza stupore né abbaglio,
ma come un lento risveglio da un letargo
universale e perenne, dove la notte
non era che un annuncio
più visibile
di un sonno eterno, buio,
invincibile,
come quando vedi appeso alla forca
non solo il corpo del condannato che
penzola
ma
tutti noi in preda alla storia.

Il ventinove di agosto a mezzanotte
un solo forte colpo scosse la nave,
ci alzammo in piedi correndo sul ponte.
Poi nel rinascente e immediato silenzio
vedemmo una nuova fenditura nel ghiaccio.
La notte seguente la chiglia dell’
Endurance
scricchiolava sinistra come una casa stregata,
a circa un metro dalle nostre orecchie.
Cominciammo a coabitare con quel rumore
stridente e
scricchiolante nella notte,
come vivendo in una tenaglia di ghiaccio
per ore e ore premente sulle ossa
fino a divenire essa stessa anestetico.
Intanto aumentavano le ore di luce,
e Bobby Clark
il biologo
disse che era cresciuto il plancton,
segno della primavera incipiente.
Dal plancton ha origine nell’Antartide
il ciclo vitale dei pesci più piccol
i,
fino alle seppie polari e ai pinguini,
le foche, le orche marine, le foche leopardo,
i grandi e lucenti capodogli.
I lastroni di ghiaccio sembravano dock
per l’immagazzinamento di cereali,
ma erano più spesso tremendi e deformi
come opere di architetti impazziti
fissando il ghiaccio apatico e i suoi demoni.
Fu lungo e crudele, l’ultimo attacco.
Durò giorni e notti, in crescendo,
lottando con la nostra abitudine agli assalti
della gelida massa senza sangue.
Le travi del Ritz si arcuarono come canne,
il banco a dritta premeva sullo scafo
arcuandolo fino a inclinarlo di tre gradi,
poi
semiriversa la nave
cedette alla pressione senza spezzarsi.
Solo una crepa, una fenditura nelle assi
del tavolato del Ritz,
là dove avevamo improvvisato il palco
per recitare la storia del principe
amato dalla
luna ma non dai suoi simili,
esclusa Ofelia, che però era morta,
attratta dall’elemento che conduce
a questo regno infernale d’acqua ghiaccia.

(Roberto Mussapi)


Dopo aver letto questa “lirica” ci riesce difficile capire che necessità abbia il “poeta”, chiamiamolo così, di andare a capo, dato che di poetico qui non c’è assolutamente nulla. È un semplice resoconto, dallo stile non levigato, l’esercizio poco maturo di una lingua peraltro assai aritmica che ricorda un articolo scritto su un giornale popolare, ma ottocentesco, datato, un poco muffoso e ridondante. A tal proposito correrebbe l’obbligo di spiegare al Mussapi che i versus per i latini indicavano la linea della scrittura, in ragione del fatto che essi significavano un volgersi per re-iniziare quasi dallo stesso punto; e, siccome il volgersi è più costante ed ordinato nella poesia, questo termine va utilizzato asservito ad essa; considerato poi che i versi poetici erano prima cantati per poi essere scritti, si ritiene a ragione che questa parola derivi dall’uso arcaicissimo di accompagnare le danze con parole misurate e ritmate, di modo che ogni versus rappresentasse una sorta di giro di danza. Leggendo questo testo non ci si gira altrove se non in altra direzione per dileguarsi e pensare ad altro! Non sappiamo, tra l’altro, se il Mussapi realizzi che in questo resoconto di marca giornalistico-giornalaia egli riesce sporadicamente e casualmente a produrre persino due rime, la prima alle righe (ci rifiutiamo di chiamarle versi, per le ragioni dianzi specificate!) 15-16 (distinti-avvinti), la seconda alle righe 65-66 (più visibile-invincibile); capita di sbagliarsi, a volte! Il linguaggio infatti è anche tradizionalmente deludente, piatto, senza scatti di genio, metafore, associazioni creative. Oseremmo dire che il sostrato morfologico e lessicale della sua sintassi si presenta abbastanza depauperato tecnicamente e stilisticamente, atteso che l’autore dimentica di:

inscrivere in asindeti le incidentali temporali in forma implicita ovvero ellittica nel predicato e le apposizioni (finché, spinta da poppa, la prua dell’Endurance montò lentamente su una lastra / Poi, nel rinascente e immediato silenzio, vedemmo una nuova fenditura nel ghiaccio / Bobby Clark, il biologo, disse che era cresciuto il plancton / poi, semiriversa, la nave cedette alla pressione senza spezzarsi);

separare le protasi dalle apodosi nei periodi ipotetici (Se qualcosa avesse impedito alla nave di alzarsi, lo scafo si sarebbe sgretolato);

anticipare asindeticamente le congiunzioni avversative (era rimasto intatto, ma inclinato / non solo il corpo del condannato che penzola, ma tutti noi in preda alla storia / per recitare la storia del principe amato dalla luna, ma non dai suoi simili);

diversificare il lessico con opportuni voci sinonimiche (La notte seguente la chiglia dell’Endurance scricchiolava sinistra come una casa stregata, a circa un metro dalle nostre orecchie. Cominciammo a coabitare con quel rumore stridente e scricchiolante nella notte).

Qui si racconta un fatto puro e semplice e lo si fa male, col risultato di ottenere una poesia atonica, stanca e soprattutto inutile. Qui si va a capo tanto per fare, spacciando per poesia, grazie alle giuste conoscenze, un testo in prosa neppure troppo attraente. Non possiamo forse leggere su qualsiasi libro di storia o su un qualsiasi giornale la storia del capitano Shackleton? Che bisogno ha il poeta di descriverci l’accaduto come se stesse facendo un articolo di cronaca nera? Preferiamo di gran lunga lo Shackleton cantato da Battiato che a riguardo se ne intende un po’ di più. La poesia è allusione, simbolo, metafora, genio. Mussapi non ha nulla di tutto questo. È un dilettante che ci informa, ci dice cose che sapevamo già. Che senso ha? La poesia è l’oltre che si fa carne e pensiero, è superamento della contingenza che qui appare la dominatrice indiscussa. Il poeta ci informa addirittura sul ciclo primaverile del plancton, come se stesse dando una lezione ai lettori:

Bobby Clark il biologo
disse che era cresciuto il plancton,
segno della primavera incipiente.
Dal plancton ha origine nell’Antartide
il ciclo vitale dei pesci più piccoli,
fino alle seppie polari e ai pinguini,
le foche, le orche marine, le foche leopardo,
i grandi e lucenti capodogli.

È gentile Mussapi a dare al lettore tutte queste spiegazioni, tuttavia il verso non c’è, questa non è poesia, è un dilettantismo elementare che sa di poter fare ciò che vuole, perché tanto, in un’Italietta in cui basta nascere per essere poeti, non avrà difficoltà a pubblicare.

Ma pubblicare non sempre significa essere poeti.

Se Shackleton fosse vivo, caro Mussapi, forse la tua terra incerta avrebbe gli occhi neri, assieme a tutti coloro che, per ragioni che ci sfuggono, vanno fieri di chiamarti poeta.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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