Misure fondate di tempo e giustizia

misure fondate di tempo e giustizia

Misure fondate di tempo e giustizia

Di Angelo Giubileo©

Luci classiche, credit Mary Blindflowers©

 

Che cos’è la giustizia? Che cos’è giusto? In termini per così dire matematici, giusto equivale a uguale, la medesima cosa che “è”, per cui nell’ambito della logica classica identitaria: A=A. Ma, e qui sta il nodo irrisolvibile per i classici greci e non solo: A è incerto ed è impossibile che si sappia cosa esattamente sia. Come per Prajapati-Ka (chi?), il signore della creazione vedica, il quale non sa chi sia e finanche dubita se egli stesso esista. Dato che lo stesso concetto di “esistenza” appare come nient’altro che un predicato dell’essere.

Pertanto, per i classici greci e non solo, tutto ciò che “è” ha natura di “ente”. Infatti, ogni ente è ciò che è, senza che possa stabilirsi cosa esattamente sia, se non che “è” è un mistero. Mistero è ciò che essi chiamano divino, ragione per cui l’essere intero giace sotto l’immagine rappresentativa del Grande Pan. E’ questa, la “verità” degli antichi o come la definì Aristotele “(l’)antico tesoro”; la verità dell’epoche (sospensione di ogni giudizio), che Plutarco dice inconfutabile, ma che i “filosofi” (philosophoi) postsocratici successivi ai “sapienti” (sophoi) presocratici – dice sempre Plutarco – vollero “vietare”, “adducendo che avrebbe portato come la testa della Gorgona all’inattività (akatalepsia)”.

E ancora: ciò che “è” (un mistero) accade nel “tempo”, che, secondo il detto di Platone,“è immagine (o sembianza, così come traduce Giorgio de Santillana) mobile dell’eternità”. Ma l’eternità esclude il movimento, ragione per cui – dice sempre de Santillana – “il sovrano del mondo deve procurare le misure normative valide per la sua età – misure sempre fondate sul tempo”. E cioè, accade che in ogni epoca, il “sovrano” (figurativamente, e in sostituzione, la “divinità” – intesa prima come dea al femminile e poi certamente e ancora nell’attualità come dio al maschile) del mondo è colui che fornisce le misure. Ovvero stabilisce e fissa le “norme” che regolano il suo dominio o la sua creazione. Prima o dopo che altri re o altre divinità prendano il suo stesso posto di sovrano nel mondo. E’ infatti questo, il segreto che il titano Prometeo non intende rivelare a Zeus, che pertanto lo tiene incatenato alla rupe e fa in modo che un’aquila giorno dopo giorno gli divori il fegato. In definitiva: il sovrano è colui che stabilisce le regole all’essere (tutto ciò che è) e in particolare a “ciò che vive” (viv-ente). A differenza della classicità greca e romana, per la cultura vedica il “vivente” non è solo l’uomo ma anche tutti gli altri animali e ancor prima le piante.

Tanto premesso, resta da chiarire però come faccia il “sovrano”, se resta eventualmente fuori dal tempo, e quindi il “dio” a dare le misure sempre fondate sul tempo. E infatti, dice de Santillana, “è difficile immaginare Saturno che dà le misure essendo residente in Canopo”. E cioè, come sia difficile argomentare che, già in epoca post-socratica, il “Dio motore-immobile” di Aristotele, esattamente come il “Dio dei cristiani”, dia le misure al mondo pur essendo trascendente al mondo. Saturno è ogni dio, signore del creato, di ogni epoca; egli è l’auctor temporum. E, approfondendo ancora la ricerca e il discorso di de Santillana, “il filo a piombo vivente”. Colui che è il “gettato”, il “capitato”, e in genere, riguardo a tutto ciò che “è”, il “già-dato”; in definitiva: ciò che esattamente accade. O anche: la misura – abbiamo già detto incerta – di ciò che accade e quindi “è”. E non viceversa di ciò che “è” e quindi accadrebbe, dato che le misure sono sempre fondate sul tempo. Pertanto, nell’attualità, Yuval Noah Harari scrive: ”Sapiens” ci ha mostrato da dove veniamo.”Homo Deus” ci mostrerà dove stiamo andando.

Dal caos al cosmos è quindi espressione che non deve essere intesa come il passaggio da un mondo disordinato a un mondo viceversa ordinato in base a norme stabilite e fissate di volta in volta dal sovrano dell’epoca. Infatti, l’ordine di dike, la sovrana e dea della giustizia parmenidea, non attiene alla risoluzione o decisione finale in merito ad alcun conflitto o separazione; dato che, ovunque, domina sempre (il) mistero o altrimenti (il) “caso” o (il) “destino”. Ogni singolo caso o destino o cosa che “è”, riguardi esso stesso una parte (ogni cosa che fa parte di tutte le cose) o l’intero (tutte le cose), è irrisolto e irrisolvibile. Dike non risolve alcun caso, non ha il potere né la forza ma è capace di dare le misure.

Per cui non lascia Giustizia né che nasca né che muoia, né lo scioglie dai ceppi, dà invece di freno (Parmenide, frammento 7/8, vv. 18-20, trad. Giovanni Cerri). La giustizia, che diventa misura – chiamata dai presocratici “natura” (divina appartenente al Grande Pan) e immediatamente poi dai filosofi scientifici post-socratici “materia” e, poi ancora dopo l’avvento dell’epoca imperiale di Cesare, prima “spirito” (di Dio) e poi “anima” (dai cristiani) -, non permette ad alcun “viv-ente”, che infatti non ne ha e non può averne la capacità, di sciogliere l’essere dai ceppi ai quali quindi resta e resterà per sempre legato. E’ questa, la dottrina dell’epoche, secondo cui non lascia Giustizia né che (l’essere) nasca né che muoia, né lo scioglie dai ceppi.

Ma (la giustizia) dà invece di freno. Esattamente, a cosa? All’“impulso”, così come “necessario”, che, chiarisce Plutarco, “si rifiuta di diventare assenso e non ammette la sensazione come asse della bilancia, ma si manifesta di per se stesso come guida delle azioni, non avendo bisogno di nulla che sia aggiunto dal di fuori”.

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

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