Grandi misteri, totalità, animali, origine

Grandi misteri, totalità, animali

Grandi misteri, totalità, animali, origine

 

La luce, credit Mary Blindflowers©

Angelo Giubileo©

Il cerchio che unisce

I Grandi Misteri riguardano la totalità delle cose, e non si tralascia di imparare, contemplare e intuire l’Origine e le cose.


Nel Politico, Platone distingue l’“ordine” caotico del divino dall’“ordine” del politico. Riflettendo sull’ordine del “divino”, che correttamente diciamo caotico, e cioè figlio del “Caos”, ma anche “vuoto” (nel senso di Democrito), “abisso” o “spazio-aperto” dell’inizio (Esiodo, Teogonia v. 116), Platone è costretto suo malgrado ad ammettere, per mezzo dello Straniero di Elea (Parmenide), che “il nostro genere umano è stato unito in sorte e posto in concorrenza con il genere più semplice e insieme più facile a trattarsi”, e cioè in specie intende il porco.

Volendo, solo in qualche modo, sottrarsi a un destino necessario, e che riconosce in qualche modo comune, Platone sviluppa un’altra similitudine tra l’uomo e il resto del regno animale, confermando che “non ci rendiamo conto di questo, che ancor più ridicolo appare il re che è in concorrenza con il gregge e che, correndo, si mette in competizione con colui che fra gli uomini è il più allenato in questa agevole vita?

Da entrambe queste rappresentazioni, e da Platone in poi – e quindi con la fine dell’epoca dei sophoi (che Plutarco dirà degli oracoli) e a seguire quella dei philosophoi -, emergono in fine le figure contrapposte del “vinto” – Legione (o spirito immondo) gettato, alla maniera dei Greci, nel corpo del maiale e quindi precipitato dalla rupe – e del “vincitore” – Gesù (o spirito che vivifica) che conduce e salva il proprio gregge verso terra nuova e cieli nuovi.

E così, il filosofo sceglie di abbandonare, in qualche modo, la via del “divino” – ovvero l’“ignoto”, il “mistero”, più esattamente, secondo il detto originario di Anassimandro, “ciò da cui per le cose è la generazione ma anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario”, ma anche la “condizione” di cui Platone stesso dice “per cui si è identici a se stessi e sempre allo stesso modo” – e perseguire invece la via che egli dice della “verità più pura” che attiene alla “natura del corpo”.

E dunque, una via, diversa, che, per mezzo del “politico”, dimora nella “separazione”. Infatti, Platone compie la sua scelta a partire dall’idea di dio e delle cose, usa quindi il metodo della divisione, e finisce con l’instaurare un “ordine” che – invece che “naturale” – è “sociale”: pensato e costruito a “immagine e somiglianza” del “principio” (dominus, princeps, divus), altrettanto inteso come “causa”.

Secondo Giorgio de Santillana, emerge “qui il primo fondamento di un modo di pensare che verrà poi chiamato razionalismo scientifico. Lo si può formulare così: tutto ciò che si può dedurre necessariamente da premesse che consideriamo vere, risulterà esistente in qualche momento, in qualche posto, in qualche modo”. Si tratta di un “metodo”, diverso – intorno al quale il francese Descartes, fondatore della matematica e della filosofia moderna, dopo due millenni, riprenderà il discorso della dialettica -, che, nel prosieguo della modernità, introduce all’idealismo della filosofia tedesca dell’Ottocento e in fine all’eventum del nazionalsocialismo di presunto stampo hitleriano. L’auspicio è e sarà quello del ritorno a un regno originario, che, nella prospettiva assunta da Platone, diventa un “paradiso perduto” o tutt’al più una “terra promessa” da riconquistare; mediante un processo di “divisione” che, tuttavia, sarebbe esso stesso causa originaria della separazione tra il “dio” (creatore) e la “natura” (creato), e in specie l’“umano” (creatura).

E tuttavia, come disvela esattamente Plutarco, anche il metodo inaugurato da Platone innanzitutto non risolve le aporie dell’“intero” e di ogni sua singola “parte”. Anzi, al contrario di quanto auspicato, in veste ancora di oracolo: “dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alle qualità in divenire – quello che viene chiamato oggi materia o natura – abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà. Ma, a mio parere, molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dèi e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità”. Un rapporto di reciprocità il cui senso compiuto è così descritto nella seconda parte del detto di Anassimandro, che fa da corollario alla prima: Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo. E quindi, a parte il “necessario”, è soltanto una questione di metodo, “giusto” o “ingiusto” che sia.

E pertanto, a maggior chiarimento:

perché i filosofi successivi a Platone – diversamente da Platone stesso, a parere di Plutarco, il quale, solo attraverso un malinteso uso del linguaggio “convenzionale” da parte dei “filosofi successivi” avrebbe in effetti concesso a Colote, primo allievo di Epicuro, “la possibilità di essere confutato” – avrebbero optato per la via del secondo cerchio politico dell’“Essere”, in tal caso potremmo dire “aristotelico”, del Dio motore-immobile, abbandonando la via del cerchio divino dell’“Essere”, in questo caso potremmo dire parmenideo, nient’affatto diviso e viceversa: “uno, tutto intero, immobile e ingenerato”?

quali sarebbero queste molte difficoltà ancora più gravi viceversa risolvibili mediante il metodo di coloro che seguirono la via del divino?

Ciò che qui è in discussione è la dottrina, la più antica, dell’epoche o atto di sospensione dell’assenso (o del “giudizio” distinto dall’ “opinione”). A tale proposito, dice Plutarco: “Neanche coloro che trattarono lungamente dell’epoche, scrissero trattati e discorsi per confutarla riuscirono poi a scuoterla. Ma alla fine costoro la vietarono, adducendo dalla Stoa l’accusa secondo la quale essa avrebbe portato come la testa della Gorgona all’inattività (il cui termine greco è akatalepsia)”.

È impossibile, dice Plutarco, per mezzo dell’uno o l’altro metodo di analisi e ricerca risolvere le “aporie” sia dell’intero che delle parti, come sarà poi in effetti dimostrato anche dai teoremi d’incompletezza del matematico austriaco Kurt Godel nel suo più famoso articolo del 1931, e che invece già sanno bene gli “iniziati” di Eleusi, secondo anche la preziosa testimonianza di Clemente Alessandrino: “Non è strano che anche i Misteri dei Greci prendano inizio dalle purificazioni … E dopo di esse ci sono i Piccoli Misteri che si propongono di offrire ammaestramenti e preparazione per i Misteri che verranno dopo; i Grandi Misteri invece riguardano la totalità delle cose, e non si tralascia di imparare, contemplare e intuire l’Origine e le cose”. Ovvero: il mistero delle parti e dell’intero, il divino, che, tuttavia, non separa bensì unisce.

E quindi, il metodo del divino che serve nei fatti – come testimoniato da Plutarco e in particolare nell’adversus Colotem – a “risolvere molte difficoltà ancora più gravi”. Dato che, in pratica, come dice infine Plutarco: “Non bisogna combattere neanche una sensazione – tutte infatti presuppongono un contatto con qualcosa, come se dalla sorgente della mescolanza ciascuna prendesse ciò che (le) si addice e che (le) è proprio – né bisogna predicare qualcosa dell’intero, dato che si entra in contatto solo le parti” (le cose si rendono infatti ammenda per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo, e quindi duemilacinquecento anni dopo, ricorrerà esattamente allo stesso modo il più famoso detto di Wittgenstein, e cioè di ciò di cui non si può parlare si deve tacere); “né bisogna ritenere che tutti subiscano le stesse affezioni, dato che certi ne hanno alcune e altri altre, a seconda delle diverse qualità e potenzialità dell’oggetto”.

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