Dalla partitocrazia alla Seconda Repubblica

Dalla partitocrazia alla Seconda Repubblica

Dalla partitocrazia alla Seconda Repubblica

Di Michel Fonte©

 

Elaborazione grafica Michel Fonte©

VADEMECUM STORICO VERSO LE ELEZIONI POLITICHE 2018

Venticinque anni di gerrymandering all’italiana

Queste prime settimane di campagna elettorale hanno acutizzato il disagio in tutti coloro che erano già segnati da una profonda disaffezione politica, ad accrescere la distanza fra cittadini e classe dirigente si è aggiunto, negli ultimi giorni, il penoso can-can di candidature maturare all’interno di ristrette combriccole, nelle quali si è imposta rispetto alla ricerca di aspiranti parlamentari che meglio potessero rappresentare una proposta politica, l’intimazione di leader persuasi di blindare le proprie posizioni di comando attraverso il contraddittorio arruolamento di fedelissimi, o presunti tali, prescindendo dal loro peso elettorale, e di esponenti di consorterie locali che potessero in qualche modo garantire quei pacchetti di voti clientelari, sempre disprezzati a parole ma nei fatti inseguiti e considerati buoni per tutte le stagioni. Non è sorprendente che questo tipo di selezione del personale politico sia la diretta filiazione di una riforma elettorale sciagurata – il “Rosatellum bis” approvato in zona cesarini dopo un travagliato iter parlamentare – che ha peggiorato la già tristemente nota legge Calderoli o “Porcellum”, poi modificata per effetto della sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale, che la convertì nel cosiddetto “Consultellum”, una legge mai utilizzata, viste le note vicende che hanno portato prima all’adozione dell’“Italicum” e successivamente, come conseguenza della parziale incostituzionalità dichiarata dalla Consulta (Sentenza 35/2017) e la netta bocciatura della riforma costituzionale con referendum del 4 dicembre 2016, al suo definitivo accantonamento. Tutto ciò porta a riflettere su come in appena venticinque anni, dal 1993 al 2018, si siano susseguite ben sei leggi elettorali, quattro approvate in Parlamento – Mattarellum, Porcellum, Italicum e Rosatellum bis – e due modellate dalla Consulta per emendarne profili di incostituzionalità (Consultellum e Italicum corretto con premio di maggioranza condizionato), un’enormità se si pensa che per ben 47 anni, dal 1946, anno della sua approvazione (decreto legislativo luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946 poi convertito in l. n. 6 del 20 gennaio 1948), al 1993, anno della sua abrogazione implicita, si è votato sempre con lo stesso sistema (l. n. 6 del 20 gennaio 1948), meglio conosciuto come proporzionale classico o puro, eccetto per le elezioni politiche del 3 giugno 1953, in cui lo spoglio avvenne in base alla contestatissima “Legge Truffa” (l. n. 148 del 31 marzo 1953), in seguito oggetto di abrogazione espressa con la l. n. 615 del 31 luglio 1954. Si può parzialmente spiegare questa mania riformista del sistema elettorale da parte della politica italiana, con il fatto che durante i primi cinquant’anni della vita repubblicana il fattore K (Kommunizm) ha impedito l’alternanza al potere, consegnando la Democrazia Cristiana (DC) al ruolo del “barbiere del paradosso russelliano”, cioè, un partito contenitore che apparteneva a se stesso solo non appartenendo a se stesso, condizione che gli ha permesso di essere il pilastro di ogni coalizione governativa dalla nascita della repubblica fino al 1994, attraverso le molteplici esperienze del tripartito (DC, PSDI e PLI), quadripartito (PSLI, PRI e PLI), monocolore, delle convergenze parallele, del centro-sinistra organico (per la prima volta nel 1963 mette insieme il PSI insieme alla DC, al PRI e al PSDI), della solidarietà nazionale (dal 1976 al 1979, che rappresentò l’unica esperienza di governo comunista) fino a escogitare, a partire dal 1981, la formula del pentapartito (DC, PSI, PRI, PLI e PSDI). Tuttavia, tale esplicazione sarebbe monca di un elemento sostanziale rappresentato dal progressivo disfacimento delle storiche famiglie politiche, come appunto quella cattolico-democratica e del socialismo marxista, che hanno lasciato un vuoto ideologico non tanto per l’anacronismo dei loro rispettivi armamentari filosofici o, per usare un termine del contesto economico, obsolescenza, ma quanto per l’incapacità dei protagonisti della recente stagione democratica di cogliere i cambiamenti sociali, rivisitando il proprio background dottrinale con una cogente cernita dei concetti da accantonare e di quelli che invece risultavano ancora adeguati alle congiunture presenti e future, seppur arricchiti da intuizioni ed elaborazioni teoriche progressiste. Per converso, si è assistito o all’abiura e liquidazione del proprio patrimonio culturale per meri calcoli politici e il desiderio di essere immediatamente spendibili in posti di potere, o, in opposizione, alla pervicace volontà di utilizzare desuete e inadeguate categorie concettuali per decrittare fenomeni sociali, economici e politici totalmente inediti, tra quest’ultimi si faccia riferimento all’exploit della Lega Nord nel 1990 e alla generale insipiente lettura del fenomeno, tranne alcune eccezioni (Valdo Spini e Achille Occhetto), che ne conseguì (“voto di protesta”, “movimento qualunquista”, “lista anti-partiti”). È così che il panorama politico italiano ha mostrato in questi anni una cachessia alimentata da pregresse cause – trasformismo, consociativismo, correntismo, clientelismo, ingovernabilità e corruzione – e da nuove radici del male – leaderismo, personalismo, markettizzazione, squilibri interpartitici e intrapartitici, indisciplina, frammentazione, scissionismo, centralismo, assenza di dibattito politico (o quando c’è, scarsezza di qualità dello stesso), morte infantile o prematura di formazioni e coalizioni partitiche e mancanza totale di una Weltanschauung – che hanno trascinato il paese verso il declino e la disgregazione sociale. Non si vuole con questo attribuire al sistema elettorale la colpa di un immiserimento del ceto politico e di uno scadimento dei contenuti dell’agenda politica, il periodo di transizione che si è vissuto ha certamente avuto un peso notevole, tuttavia, se una riforma elettorale non può garantire a priori stabilità e governabilità, certamente può contribuire in maniera importante a conseguire questi obiettivi, ragione per cui, ricostruire storicamente ciò che è accaduto aiuterà a comprendere come si sia generato un nuovo sistema istituzionale bloccato, dominato dal fattore J-UE e dalla conventio ad tacendum.

Il Mattarellum, ossia, la scialuppa di salvataggio alla diaspora democristiana

Il primo ad inaugurare la lunga stagione delle riforme elettorali fu l’attuale presidente della repubblica con le leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277, che disegnavano un meccanismo che come detto a suo tempo (http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_sconfitta_di_un_premier_accecato_dallego/5871_18226/) aveva come obiettivo prioritario di permettere ai reduci democristiani, rimasti orfani del partito di appartenenza e investiti dalle inchieste di Tangentopoli, di sopravvivere al sistema maggioritario mantenendo una posizione fuori dai poli, a tale scopo fu promosso da Mario Segni il Patto per l’Italia in cui confluirono il PPI (Partito Popolare Italiano) il Patto Segni, il Partito Repubblicano Italiano (PRI), l’Unione Liberaldemocratica e a titolo personale diversi esponenti socialisti e socialdemocratici. Questa formazione centrista si presentò in maniera unitaria al proporzionale del Senato – per aggirare il più alto sbarramento su base regionale – e nei collegi uninominali di entrambe le camere per garantirsi qualche chance di vittoria nelle competizioni a turno secco (first-past-the-post), mentre al proporzionale della Camera dei Deputati, la bassa soglia di sbarramento a livello nazionale (4%) permise ai partiti della coalizione di correre autonomamente con i propri simboli. Nei fatti, sfruttando la quota proporzionale (25%) nell’assegnazione dei seggi fissata dal Mattarellum, il PPI di Martinazzoli poté entrare in Parlamento con una pattuglia di 33 deputati (29 al proporzionale e 4 nell’uninominale sotto il simbolo di coalizione Patto per l’Italia) ai quali si sommarono i 13 del Patto Segni (tutti eletti nel proporzionale) e 31 senatori ripartiti tra le forze componenti il Patto per l’Italia (di cui 28 nel proporzionale e 3 nei collegi uninominali). A conti fatti, il soprannominato “terzo polo” conquistava nel proporzionale rispettivamente il 27% dei seggi totali assegnati alla Camera (42 seggi su 155) e il 34% di quelli attribuiti al Senato (28 su 83), ma dato ancora più importante, il 91% degli scranni della formazione centrista, ben 70 su 77, era ottenuto fuori dai collegi uninominali, in quanto soltanto 7 candidati riuscivano ad avere la meglio nella competizione maggioritaria concentrandosi, oltretutto, in due ristrette aree territoriali a forte connotazione di voto di scambio, una riguardante le circoscrizioni Irpinia e Vallo della Lucania riconducibili al feudo di Ciriaco De Mita – dove si registrarono ben cinque eletti, tre alla Camera (Mario Pepe nel collegio di Ariano Irpino, Gianfranco Rotondi in quello di Avellino e Antonio Valiante nel Vallo della Lucania) e due al Senato (Ortensio Zecchino ad Ariano Irpino e Nicola Mancino ad Avellino) – e l’altra la Sardegna, specificamente nei collegi di Nuoro (dove prevalse al senato il democristiano e consigliere regionale di lungo corso Salvatore Ladu) e Olbia (il cui sindaco Gian Piero Scanu fu eletto deputato). Approfittando di una legge promulgata senza battere ciglio dall’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro, Sergio Mattarella – artefice di una riforma che calpestava la volontà popolare espressa nei referendum abrogativi del 9 giugno 1991 (cancellazione della preferenza multipla alla Camera dei Deputati attraverso l’abrogazione parziale del DPR n. 361 del 30 marzo 1957) e del 18 aprile 1993 (abrogazione del sistema proporzionale al Senato l. n. 29 del 6 febbraio 1948), con i quali gli Italiani avevano optato per un sistema maggioritario – veniva eletto al Parlamento (proporzionale della Camera dei Deputati nella circoscrizione Sicilia 1) in compagnia di storici esponenti democristiani come Franco Marini, Rosy Bindi, Nino Andreatta, Rosa Russo Jervolino e l’ex Ministro dell’Interno (1992-1994) Nicola Mancino, quest’ultimo protagonista delle note intercettazioni telefoniche, poi distrutte, con Giorgio Napolitano e il suo consigliere personale al Quirinale, Loris D’ambrosio, concernenti il processo di Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia che lo vede accusato per falsa testimonianza. In sostanza, con l’introduzione di una quota di seggi assegnata con il proporzionale, una ridotta soglia di sbarramento (specie alla Camera) e soprattutto lo scorporo dei voti al Senato delle liste dei candidati vincenti nei collegi uninominali, Mattarella più che garantire una legittima rappresentazione delle minoranze, provò a rendere il terzo polo ago della bilancia dello scacchiere politico, in tal modo, il Patto per l’Italia, e più specificamente il PPI degli ex democristiani, avrebbe conseguito il vantaggio strategico di far nascere maggioranze parlamentari a seconda delle convenienze del momento, configurandosi, per dirla con le parole di Norberto Bobbio riferite al PSI degli anni 80’, come “un partito mediano, cioè un classico partito di coalizione un partito che non può esercitare una propria influenza se non entrando in una coalizione.”

La nascente bestia politica, suggerita dall’ex Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita (13 aprile 1988 – 22 luglio 1989), aveva come aspirazione quella di fondere la disinvoltura e la volontà di potere craxiana con l’algido cinismo andreottiano, rivendicando dal suo ruolo centrico e centrale la libertà, in presenza di due forti schieramenti sulle ali, di collocarsi a destra o a sinistra sfruttando il proprio persuasivo potere di coalizione e ricatto. Purtroppo per i superstiti della “balena bianca” e il politico di Nusco, definito criticamente come il “Padrino della DC” e “L’uomo dal doppio incarico”, la strategia si rivelò un fiasco ed ebbe come sola ma tragicomica conseguenza di creare per il primo governo Berlusconi (maggio 1994 – gennaio 1995) una traballante maggioranza al Senato appoggiata proprio da transfughi centristi (159 sì, 153 no e 2 astenuti in occasione della sua nascita con l’appoggio fondamentale di Luigi Grillo e l’abbandono dell’aula di Tomaso Zanoletti, Stefano Cusumano e Vittorio Cecchi Gori, tutti appartenenti al Patto Segni), che venne meno a seguito delle intemperanze leghiste su riforma pensionistica e devoluzione – poi culminate con l’abbandono di Bossi – e per l’azione di disturbo ispirata dal presidente della repubblica Scalfaro, strenuamente impegnato a trovare in Parlamento una diversa maggioranza che rimettesse in gioco gli storici amici democristiani disarcionando il cavaliere di Arcore. L’operazione si concretizzò attraverso il cosiddetto “Ribaltone”, con il quale Lamberto Dini da Ministro del Tesoro del gabinetto berlusconiano passò a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio (17 gennaio 1995 – 16 gennaio 1996 con l’appoggio di PDS, PPI, PSI, FdV, La Rete, CS, LN, MCU), insediando a Palazzo Chigi un esecutivo di tecnici che conseguì il duplice obiettivo di approvare una manovra correttiva per proteggere una lira in affanno sotto i colpi della speculazione cambiaria – cui seguirà una legge finanziaria per il 1996 da 32.600 miliardi – e soprattutto di varare la prima riforma del sistema pensionistico, che dopo la bocciatura di quella ben più equa di Berlusconi da parte delle confederazioni dei lavoratori con una grande manifestazione nazionale (il 12 novembre 1994), sarà invece accettata dalla triplice sindacale, CGIL, CISL E UIL (8 maggio 1995), segnando il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo (14 luglio 1995).

L’ossessione centrista mina la stabilità dei poli.

Ai partiti politici occorse un po’ di tempo prima di comprendere il micidiale inganno che si celava dietro il Mattarellum, difatti, anche il primo esecutivo Prodi (18 maggio 1996 – 21 ottobre 1998) si scontrò con il problema di una maggioranza risicata (appena 7 deputati in più alla Camera) e con l’appoggio esterno di una combattiva Rifondazione Comunista (PRC), nonostante ciò, confidando nella fedeltà degli alleati il professore di Bologna tirò dritto senza provare a coinvolgere partiti fuori dal blocco di centro-sinistra, scelta che si rivelerà esiziale a causa di divergenze programmatiche con lo stesso PRC e il frutto avvelenato di percorsi, storie, interessi e visioni politiche differenti dentro l’Ulivo, al punto che il 9 ottobre 1998 con l’abile regia di Massimo D’Alema capeggiante la componente diessina (il Partito democratico della sinistra, Pds, si era trasformato il 13 febbraio 1998 in Democratici di sinistra, Ds) e il beneplacito, per l’ennesima volta, di Oscar Luigi Scalfaro (saranno ben sei i governi varati durante il suo settennato), il governo perse la fiducia con 312 voti favorevoli e 313 contrari. Si aprì così una nuova stagione di walzer di deputati e senatori, dopo i “traditori di Palazzo Madama” (i senatori popolari Cecchi Gori, Grillo, Cusumano e Zanoletti) così duramente apostrofati da Mattarella e Rosa Russo Iervolino, a cambiare casacca furono ancora una volta esponenti di provenienza democristiana sofferenti di “poterepatia”, nello specifico, la nascita in Parlamento (febbraio 1998) di gruppi dell’Unione Democratica per la Repubblica (UDR) promossi dall’ex Presidente Francesco Cossiga per unire e far valere il peso dei centristi fuori dai poli, spingerà con l’insediamento del Primo Governo D’Alema (21 ottobre 1998 – 18 dicembre 1999) a transitare dal Polo delle Libertà, con cui erano stati eletti, verso il centrosinistra, i Cristiani Democratici Uniti (CDU) di Buttiglione, un gruppo di parlamentari ai comandi di Clemente Mastella, che dopo essersi separato dal Centro Cristiano Democratico (CCD) del segretario Casini costituirà i Cristiano Democratici per la Repubblica (CDR), la Socialdemocrazia Liberale Europea (SOLE) di Enrico Ferri e, a titolo personale, diversi esponenti di Forza Italia e Alleanza Nazionale. Con questo nutrito plotone di trasformisti, cui si aggiunse la novella formazione del Partito dei Comunisti Italiani di Armando Cossutta e Oliviero Diliberto (PdCI nato l’11 ottobre 1998) – che, nel frattempo, avevano rotto con la strategia intransigente del PRC di Fausto Bertinotti contrario alla legge finanziaria e alle operazioni militari nei Balcani (Albania e allargamento della Nato) – D’Alema poté governare dal 1998 al 2000 (il Secondo Governo D’Alema nascerà il 22 dicembre 1999 e terminerà il 25 aprile 2000) in perfetta continuità con il precedente esecutivo Prodi e con non poche complicazioni e recriminazioni, vista la personale necessità di sdoganarsi a livello internazionale, soprattutto agli occhi degli USA, annientando politicamente l’ala sinistra dello schieramento. L’azione del premier si concretizzò in un programma di tagli a sanità, trasporti e istruzione pubblica, finanziamento della scuola privata, inizio del processo di precarizzazione del lavoro – in tal senso le dichiarazioni rilasciate alla fiera di Bari di settembre del 1999 (“È finita l’epoca del posto fisso, oggi l’occupazione si crea anche con i lavori a termine… lo sviluppo deve garantire che da un’esperienza (di lavoro) temporanea si possa passare a un’altra, non dare l’illusione che si possa trovare il posto fisso, Se applicassimo questo ragionamento al caso degli Stati Uniti e defalcassimo dalle statistiche americane i lavori precari, allora gli Usa avrebbero lo stesso tasso di disoccupazione di Reggio Calabria”) erano la naturale conseguenza della concertazione della vigilia di Natale del 1998, che aveva portato, insieme al riconoscimento del ruolo delle agenzie di lavoro interinale, a una maggior flessibilità e minore costo del lavoro con l’introduzione di contratti atipici – proseguimento del programma di privatizzazioni, trasferimento di fondi pubblici al sistema delle grandi imprese (di cui la Fiat fu la massima beneficiaria già sotto il Primo Governo Prodi con il bonus rottamazione, 1 febbraio – 31 luglio 1998) e intervento militare in Kosovo (operazione “Arcobaleno”) ed ex Jugoslavia (concessione basi militari e bombardamento della televisione pubblica di Belgrado) con l’annesso e spinoso caso Öcalan. Tracciando un bilancio, l’esperienza di governo dell’Ulivo conclusasi con il secondo gabinetto Amato, si dimostrò un fallimento visto l’avvicendamento di ben quattro esecutivi (Prodi I, D’Alema I e II e Amato II) e l’implosione dello schieramento progressista, certificato dalla debacle elettorale alle politiche del 2001. Si è spesso attribuito all’intransigenza delle forze radicali ed estremiste (Lega Nord e PRC) la colpa del mancato realizzarsi di un compiuto sistema di alternanza democratica con un premier in grado di governare per l’intera legislatura, però, una lucida esegesi dei fatti, evidenzia come siano state soprattutto le diverse e mutevoli formazioni centriste di ispirazione democristiana, tanto a destra come a sinistra, e i regolamenti di conto all’interno dell’ex partito comunista, a creare i presupposti dell’ingovernabilità. Più di vent’anni di quella che è stata definita Seconda Repubblica non hanno prodotto i cambiamenti epocali che promettevano, uno dei quali, nato sulle ceneri di Tangentopoli e della questione morale, era la definitiva disintegrazione della partitocrazia, cui sarebbe dovuto subentrare un sistema bipolare con alternanza tra conservatori e progressisti. È del tutto naturale che in una prima fase gli schieramenti non potessero avere quell’omogeneità che si auspicava, in quanto le coalizioni in un momento storico in cui si sgretolava il vecchio apparato partitico nascevano più per l’esigenza di vincere che di governare, si ricordi in tal senso il ruolo, nel 1994 e nel 2001, di Berlusconi come garante e cerniera tra una forza nazionale e statalista quale il Movimento Sociale Italiano (MSI-DN poi, a partire da gennaio 1995, Alleanza Nazionale, AN) di Fini e un movimento secessionista come la Lega Nord di Umberto Bossi, così come il “patto di desistenza” siglato da Prodi nel 1996 con il PRC, che costituiva un compromesso per mettere insieme due litigiose anime, una di storiche radici cattoliche (PPI per Prodi) e l’altra di recente conversione socialdemocratica (il PDS che aveva raccolto a partire dal febbraio 1991 l’eredita del PCI), con un partito, Rifondazione Comunista, che continuava a rivendicare la sua fede marxista. Dunque, i protagonisti del tempo sapevano benissimo termini e problematiche delle alleanze e non potevano ignorarle nella realizzazione dei programmi, se non con il rischio di perdere la maggioranza che li sosteneva, evento che si è puntualmente verificato tanto nell’Ulivo quanto nel Polo per le Libertà, per la volontà di eludere, una volta al governo, i patti siglati con le forze alla loro destra e sinistra, coltivando in questo modo il disegno di creare maggioranze parlamentari variabili che finivano per scatenare le ambizioni di conventicole, minipartiti, gruppuscoli e cerchi di ispirazione centrista. In quel periodo il collante delle forze di centro-sinistra è stato principalmente l’antiberlusconismo, spesso declinato in maniera feroce nel fronte ulivista sia dagli ex-comunisti (tra gli altri Achille Occhetto, colui che voleva ridurre Berlusconi a chiedere la carità) che da esponenti moderati, difatti, era palese l’avversione nei confronti di “Sua Emittenza” da parte di politici di estrazione democristiana come Scalfaro, De Mita, Rosy Bindi e Cossiga, proprio quest’ultimo si fece promotore di un progetto politico, da lui definito di “natura liberale”, che fu la causa della travagliata esperienza di governo del centrosinistra, pur avendo come obiettivo la distruzione di Berlusconi. Il grande picconatore si rese, infatti, disponibile a garantire i numeri affinché il governo Prodi I potesse proseguire il suo mandato anche senza l’appoggio di Rifondazione Comunista, in cambio però chiedeva il riconoscimento del proprio ruolo, detto in altri termini, visibilità e poltrone per l’UDR di modo che questo raggruppamento potesse crescere elettoralmente alle spalle del Polo per le Libertà, fino ad esautorarlo trasformandosi in una grande aggregazione laica di centro, raccoglitrice di consensi democristiani e socialisti e alternativa al polo socialdemocratico, essenzialmente costituito dai DS. In definitiva, Cossiga voleva giungere ad una forma di bipartitismo britannico attraverso una doppia manovra: lo svuotamento del Polo per le Libertà, anche colpendo mortalmente l’impero mediatico (Fininvest) del suo leader, e la marginalizzazione delle forze di destra (Lega Nord e AN) e sinistra radicale (PRC). Il problema per Cossiga fu che D’Alema sentì puzza di bruciato intuendo che un polo costituito da una sola forza socialdemocratica, oltretutto dalla storia recente, difficilmente avrebbe potuto avere la meglio nella competizione elettorale contro un’affollata coalizione moderata, pertanto, preferì continuare a flirtare con Berlusconi – il miglior alleato per creare coesione a sinistra – cercando però, nello stesso tempo, di smontare il fronte avversario attraverso la bicamerale (1997), il cui scopo recondito fu quello di disinnescare al nord il fenomeno Lega concedendo una profonda e generosa riforma del Titolo V della Costituzione. In effetti, seppure approvata sotto il Governo Amato II e con il venir meno del sostegno del capo di Forza Italia, la mossa sortirà gli effetti sperati, dato che nelle successive elezioni politiche del 2001 il movimento di Bossi ottenne solo il 3,94% dei consensi a livello nazionale, e nelle elezioni del 2006 si attesterà al 4,58% alla Camera e al 4,48% al Senato, molto al di sotto di quel 10,07% di voti alla Camera e 10,41% al Senato delle elezioni del 1996, quando si era presentata da sola. Il drastico ridimensionamento dei consensi leghisti va attribuito non solo alla riforma federalista che lo fece decadere a “partito di scopo” (raggiunto l’obiettivo il movimento si sgonfia), ma anche ad alcuni scandali (il caso Popolare CrediEuronord nel 2003) e alla consapevolezza che, com’era accaduto al PPI, fuori dalle alleanze di centro-destra e centro-sinistra era possibile sopravvivere nelle competizioni elettorali, con alterne fortune, senza però incidere sugli equilibri di governo, se non a patto di inciuci che poi venivano severamente puniti nelle urne dagli elettori, a maggior ragione per un partito radicale (secessionista e antimmigrazione), antisistema (antiromano) e fortemente territorializzato (questione settentrionale). Dal punto di vista politico, D’Alema ottenne di più con le concessioni al Carroccio che Cossiga con le minacce rivoltegli per interposta persona (“Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega, li farò pentire: nelle loro località che più simpatizzano per il vostro movimento autonomo aumenteranno gli agenti della Guardia di Finanza e della polizia; anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano saranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali, e le loro partite IVA; non li lasceremo in pace”, queste le parole rivolte per telefono all’ideologo Gianfranco Miglio), mentre non poté impedire un crescente aumento dei consensi della componente centrista dentro il contenitore progressista (concretizzatasi nel buon risultato della Margherita che raccolse il 14,52% alle politiche del 2001 proprio a detrimento dei DS, fermi al 16,57% dei consensi rispetto al 21,11% del 1996, allora sotto il nome di PDS) malgrado alla vigilia delle elezioni del 1996 riuscisse a evitare una fusione tra l’area ulivista e quella pidiessina, imponendo alla formula desiderata da Prodi del centrosinistra senza trattino quella con il trattino (centro-sinistra), in cui si mantenessero percepibili le diverse e reciproche identità.

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