Il ladro del silenzio, Rawi Hage

Il ladro del silenzio - Rawi Hage

Il ladro del silenzio, Rawi Hage

 

Il musicista mi deve dei soldi, credit Mary Blindflowers©

Di Sonia Argiolas©


Titolo: Il ladro del silenzio

Autore: Rawi Hage

Editore: Garzanti

Pagine: 350

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Perché la vita, spesso, è angoscia. Angoscia che si nutre di se stessa, che ci consuma e non ci regala nient’altro: né speranza, né sogni.

Siamo in Canada. A Montréal. Lui, inquieto, si aggira per le strade di quella gelida e innevata città. Lui ama Shohreh, anche se non si fida dei suoi sentimenti. Certo, le donne gli provocano sensazioni talmente forti da causare nel suo corpo anomale metamorfosi: basta infatti una caviglia femminile perché i suoi denti divengano aguzzi e la schiena si ingobbisca. Basta così poco. Per fortuna, forse, c’è la terapista con la quale parlare. Con la quale poter confessare finanche che, da bambino, lui è stato un insetto. Sì, per l’esattezza, uno scarafaggio. E gli scarafaggi, in effetti, sono gli inquilini abituali del suo appartamento i quali, indisturbati, girovagano tra stoviglie ammucchiate sul lavello e maleodoranti. I soldi stanno finendo, lo stomaco inizia a lamentarsi: è necessario trovare, al più presto, un lavoro. Ma prima è forse meglio andare a cercare, tra le gelide strade canadesi, Reza, il musicista iraniano-gran bastardo, che gli deve restituire ancora i suoi quaranta dollari. Certo, nella sua terra, il Libano, era tutto diverso. Certo, in Libano c’era la sua adorata sorella… 

Dopo il grande successo di critica e i numerosi premi vinti con il suo primo romanzo Come la rabbia al vento, Rawi Hage, scrittore libanese, ora emigrato in America, ci offre con Il ladro del silenzio un romanzo forte, duro, velenoso. Tutto incentrato sulla figura di un gruppo di emigrati mediorientali in Canada, nel gelido Canada. Forse troppo freddo per il loro sangue. È un romanzo nel quale tutto pare sfaldarsi, a iniziare da quei miseri appartamenti che ricordano, in qualche modo, gli ambienti bukowskiani dei tempi peggiori, quelli in cui, per usare le sue stesse parole,
Ognuno di noi ha i suoi inferni, si sa. Ma io ero in testa, di tre lunghezze sugli inseguitori”.
Si sfaldano i sogni, le speranze, la vita e le vite. Poi, riaffiora il passato e con esso i dolori e pubblici e privati. Le parole di Hage sono terribili  in quanto non lasciano spazio alla speranza –  se non, forse, nella storia d’amore –  perché anch’essa è troppo umana e tutto ciò che è umano pare non possa far parte, se non a costo di forzature, di quest’opera. Insomma, Hage ci regala una storia che lascia nel lettore una sorta di angoscia e a ciò, indubbiamente, contribuisce, e non in misura marginale, lo stile che, in molti punti della narrazione, tende ad essere decisamente lento e prolisso quasi a voler amplificare quel già drastico quadro, tutto e solo umano, di degrado e di sofferenza. 

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