Bob Dylan meritava il Nobel? Due pareri a confronto©

Bob Dylan meritava il Nobel? Due pareri a confronto©

di Pierfranco Bruni e Mary Blindflowers©

Senza tempo, mixed media on paper by Mary Blindflowers©

Siccome il monopensiero è detestabile, pubblichiamo due pareri differenti a confronto sul Nobel a Dylan, a seguire quello di Pierfranco Bruni, e quello di Mary Blindflowers.

Pierfranco Bruni©

Romance in Durango” di Bob Dylan cantata da Fabrizio De Andrè ha il sublime del verso che recita una avventura. Dal romance alla avventura. Che straordinario passaggio. L’ho sempre sottolineato. Dylan e De André. Due poeti nella musica. Così. Il linguaggio poetico in musica ottiene un grande riconoscimento. Di questo sono molto soddisfatto. Bob Dylan. Premio Nobel per la letteratura. Nei miei lavori suo cantautori Dylan resta fondamentale.

È un fatto significativo. Rompe steccati e varianti. Si entra nella cultura popolare che ha fatto della musica una forma di linguaggio nel quale si vivono non solo le sensazioni, ma anche le forme di in processo che è strettamente letterario e linguistico.

Questa volta sono felice. I motivi sono tanti. Principalmente perché si riconosce il testo di una canzone come vera e propria dimensione letteraria. La canzone d’autore non è mai stato un prodotto diverso rispetto alla poesia.

Questo vale per Dylan ma vale, come più volte ho scritto nei miei libri sui cantautori italiani, per De André, per Califano, per Conte per Tenco, per Beatz, per Noa per Franco Simone, per Mia Martini, per Francesco De Gregori che ha legato molti suoi testi al suo cantico.

Il testo musicato è un testo poetico. Un dibattito che ho sempre seguito e sul quale ho speso molto lavoro con numerose pubblicazioni che continuano a stimolare un interesse particolare.

Dylan chiaramente dagli anni sessanta in poi ha contrastato le istanze sommesse dei linguaggi tradizionali, ed ha creato la parola rarefatta come nel mondo simbolista francese o ermetico italiano e latino americano. Perché nel testo di Dylan ci sono gli intrecci tra contenuto e forma, tra immaginario e regia della parola.

Le parole portate dal vento e il vento che si fa parola. Una visione delle metafore corte. 

Ma a Dylan molti della mia generazione devono gran parte della propria formazione. Magari un Dylan non diretto e filtrato dai testi dei cantautori italiani. Lessi Dylan e Beatz prima di ascoltarli nei testi della Newton.

Brassen o Brel sono dentro quel viaggio che parte dal canto di “Gracias de la vida” sino al tempo che viaggia nello spazio della spiritualità appunto di Dylan.

Un Nobel meritato. Questo sì. Innovatore. Maestro e corruttore positivo dei linguaggi in cravatta e gilé.

Attraversamenti di linguaggi che portano alla letteratura perché in Dylan c’è letteratura: 

Non serve a niente sedersi e chiedersi perché se non lo capisci subito. Quando il gallo canta al sorgere dell’alba, bhe’, guarda fuori dalla tua finestra, piccola, me ne sarò andato.

Tu sei la ragione per la quale me ne sarò andato.

Si non pensarci due volte va bene così.

Ho guidato lungo la strada desolata ragazza, dove sono diretto non posso dirtelo. Arrivederci è una parola troppo buona ragazza

così ti dirò addio. Non sto dicendo che mi hai trattato male

avresti potuto fare meglio di così ma non importa.

Si non pensarci due volte va bene così.

Poi autorevolmente si riconosce alla canzone il ruolo di essere patrimonio della creatività. Ma c’e’ di più. La poesia che oggi è in travaglio nasce non più dalla retorica. Bensì dalla inquietudine del rinnovamento”. 

Dylan in fondo regala spiritualità intrecciata nella antropologia dei linguaggi con una dimensione sempre innovativa. Non sperimentalista tout court, ma nelle avanguardie che danno un senso.

La canzone dunque come espressività letteraria e il linguaggio musicale come modello emozionale.

I suoi testi lo dimostrano ampiamente. Io l’ho sempre percepito e recepito come poeta. La poesia come dimensione onirica nel percorso linguistico. Uno scavo nella parola cantata.

Ma cosa è un poeta per Bob Dylan?

Ecco come Dylan si dichiara:

Se mi sento un poeta? Qualche volta. È parte di me. È parte di me il convincere me stesso che sono un poeta. Ma ci vuole molta dedizione. Molta dedizione. I poeti non guidano. I poeti non vanno al supermercato. I poeti non svuotano la pattumiera. I poeti non fanno parte dell’Associazione dei genitori e insegnanti. I poeti non vanno nemmeno a fare picchetti davanti all’ufficio delle Case popolari, o qualunque altra cosa. I poeti non parlano nemmeno al telefono. I poeti non parlano con nessuno. I poeti ascoltano molto e… di solito sanno perché sono poeti! Sì sono… come posso dire? Il mondo non ha bisogno di altre poesie, c’è già Shakespeare. Ce n’è già abbastanza di qualunque cosa. Qualunque cosa venga in mente, ce n’è già abbastanza. Ce n’era già fin troppa con l’elettricità, forse. C’è gente che l’ha detto. C’è gente che ha detto che la lampadina era già fin troppo. I poeti vivono in campagna. Si comportano da gentiluomini. E vivono secondo il loro codice di gentiluomini e muoiono in miseria. O annegano nei laghi. Di solito i poeti finiscono molto male. Basta guardare alla vita di Keats. O a quella di Jim Morrison, se lo vogliamo chiamare un poeta.

Questo scavo di esistenza nelle parole è un viaggiare tra i linguaggi e l’anima.

Mary Blindflowers©

Ho sempre pensato ai vecchioni del Nobel di Stoccolma come a 4 parrucconi affetti da incipiente e invalidante artrite reumatoide, destinati dai loro sacri scranni platinati alla santificazione dell’arte, della pace e della letteratura universali, o meglio di ciò che essi giudicano artistico, pacifico e letterario.

Siccome non credo ai santi e neppure ai miracoli e alle verità apodittiche, sancite a grandi lettere sulla carta un poco stantia dell’ufficialità e della verità insindacabile, trovo che la nuova tendenza di “stupire senza stupire” che abbiano adottato ultimamente lì in Svezia, abbia un tocco di inquietante patetismo. Si subodorava già da tempo il Nobel a Dylan, giudicato non si sa bene a che titolo, “poeta”.

Certo, le sue canzoni hanno “qualcosa di poetico”, non lo si può negare, tuttavia quel “qualcosa”, quel quid inespresso che farebbe dei suoi testi pura poesia, appare, al di là della simpatia che si può provare per lui come musicista, una forzatura dettata dal tentativo di svecchiare il Nobel, renderlo gradito anche a chi lotta contro la cultura accademica e i tromboni muffosi e incartapecoriti che la rappresentano.

Ciò che distingue l’arte da ciò che arte non è, è la sperimentalità, l’innovazione.

Dove sta la sperimentalità nelle poesie di Dylan che oltretutto pensa perfino di essere un poeta, autoetichettandosi: “Se mi sento un poeta? Qualche volta. È parte di me. È parte di me il convincere me stesso che sono un poeta“.

Un poeta non deve convincere nessuno, nemmeno se stesso di essere un poeta, un poeta in realtà non si autodefinisce tale e non si sforza di dimostrare niente a nessuno, tanto meno a se stesso. E poi continua, dicendo ironicamente che i poeti non vanno al supermercato, non parlano al telefono, non fanno picchetti, etc., dando ad intendere che l’innovazione sarebbe lui, lui che fa musica per le masse, lui che scrive:

Sulla duna sdraiato al cielo rapito

i bambini giocavano con la sabbia e le bici,

arrivasti da dietro

e ti ho vista passare,

eri allora vicina da poterti toccare,

Sara, Sara, dimmi cosa ti ha fatto cambiare…

Questa è una canzonetta ma non è poesia, non c’è ricerca sul linguaggio, il testo è banalmente sentimentale.

E ancora:

Tu sei la ragione per la quale me ne sarò andato.

Sì non pensarci due volte va bene così.

Ho guidato lungo la strada desolata ragazza, dove sono diretto non posso dirtelo. Arrivederci è una parola troppo buona ragazza

così ti dirò addio. Non sto dicendo che mi hai trattato male

avresti potuto fare meglio di così ma non importa.

Si non pensarci due volte va bene così.

Ma la poesia qui dov’è?

Questa è prosa che va a capo, chiunque può scrivere questi chiamiamoli così “versi”.

Forse è per questo che Dylan si sforza di dire a se stesso ogni giorno “sono un poeta, sono un poeta”, a forza di dirlo ha convinto tutti, perfino gli artritici del Nobel che con sapiente strategia, hanno pensato di assecondare con questa manovra le icone della cultura di massa, in modo che tutti gli intellettuali “progressisti”, dicessero con gioia, “finalmente la poesia esce dai libri, dalle accademie, dai salotti dei vecchi tromboni, evviva Stoccolma ringiovanita!”, Stoccolma che premia chi arriva al cuore della gente, chi ha cantato davanti al Papa con una mano sul cuore e l’altra sulla croce del potere.

Ebbene, non ci casco, sono strategie politiche queste, oltretutto già troppo annunciate per riuscire a stupire. Bob Dylan, già inserito da tempo nelle antologie e nelle lezioni universitarie, è riuscito a beccarsi un Nobel per la letteratura senza aver mai scritto una vera raccolta poetica o aver fatto mai letteratura. “Il corruttore di linguaggi in cravatta e gilè” non ne ha mai inventato uno suo, però da oggi è ufficialmente poeta.

Non vi illudete che si sia voluto combattere un sistema, è tutto un bluff. Sta accadendo ciò che è accaduto alla Street-art che adesso viene snaturata nei musei e inglobata dal sistema. Nata come contro-arte ribelle ora è ufficialmente arte, il sistema, non potendo combatterla l’ha assorbita, anche se c’è ancora qualcuno che resiste, mantiene l’anonimato e non ci sta. In pratica ciò che il sistema non può combattere lo ingloba, un po’ come fanno le religioni coi sincretismi… Lo stesso è accaduto a Dylan, inglobato come classico innovativo e nuova poesia nelle antologie di quella stessa cultura accademica e ufficiale che egli ha sempre voluto combattere. Già le sue parole al vento le lessi nella mia antologia delle scuole medie, insomma, qualche anno fa… E allora di cosa stiamo parlando? Di poesia? Signori, siamo seri, andiamo oltre gli abboccamenti del sistema, la iena che obnubila le coscienze.

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