Falò, teatralità, rito, mito, tradizione

Falò, teatralità, rito, tradizione

Falò, teatralità, rito, mito, tradizione

 

La terra del fuoco, credit Mary Blindflowers©

 

Pierfranco Bruni©

Falò, teatralità, rito, tradizione

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Il falò è una rappresentazione di una civiltà in cui i modelli etnici costituiscono il linguaggio di una rievocazione. La rievocazione recupera il mito per farlo diventare rito. Il mito e il rito sono la teatralità di una antropologia del linguaggio sommerso delle etnie. Il Mediterraneo è anche la terra dei falò. L’Occidente e l’Oriente. Disse Rûmi: “Il fuoco non ha più fumo quando è diventato fiamma”.
La Puglia tra Adriatico e Mediterraneo ha il canto delle magie, come la Calabria ha il canto delle magare. La Campania la danza delle streghe. La Tarantata è l’Oriente che danza nella grecità e nel bizantino mondo. Brindisi (e Mesagne), Novoli (Lecce) e Grottaglie (Taranto) hanno l’antica tradizione dell’accensione dei falò che è strettamente legata ad una cultura popolare il cui elemento fondamentale resta la religiosità. Ogni Regione, comunque, ha la sua teatralità con il falò. Cambiano le tradizioni e cambiano i luoghi e cambiano le date. Ma la grata simbolica ha sempre un “amuleto” come segno di rappresentatività orfico – propiziatrice.
Sia a Brindisi che a Novoli o a Mesagne il Santo, nella trascrizione rituale, è Sant’Antonio Abate la cui data calenderizzata è il 17 gennaio. Mentre a Grottaglie è San Ciro che si festeggia con uno straordinario falò (Focra – Foc’ra) il 31 gennaio. Chiaramente il rito del falò non comprende soltanto queste date, in Puglia, o questi Santi.
I grandi festeggiamenti per San Giuseppe continuano lungo questo percorso. Un Santo segnato da matrici anche etniche. Si pensi a San Marzano di San Giuseppe, una comunità che si mobilita interamente per celebrare riti sacri e riti pagani il 18 e 19 marzo. C’è un processo antropologico che si innesca dentro questi sistemi culturali ai quali l’identità dei territori diventa fondamentale. Il fuoco, il falò, la danza intorno al fuoco, i canti hanno richiami non solo storici ma anche etno – archeologici.
È naturale che la etno – antropologia recuperi anche il linguaggio del falò attraverso le recite e il canto. Una visione innovativa che entra nel nuovo concetto di bene culturale. Ha sostenuto la studiosa di antropologia Maria Zanoni: “Un tempo i contadini raccoglievano i rami secchi nelle loro campagne per poi farne un enorme rogo e spargere le ceneri nei campi per propiziare il raccolto. La mattina successiva, dopo aver fatto il giro tre volte intorno alla cenere lasciata dal falo’, se ne raccoglieva un po’ e la si passava sui capelli o sul corpo, per scacciare i mali; mentre tizzoni accesi venivano portati nel focolare delle proprie case come protezione dagli spiriti maligni.
Il momento dedicato ai falò coincideva con l’inizio dell’anno, che era anche inizio dell’anno agricolo, tra febbraio e marzo, stagione dedicata a Marte, dio dell’agricoltura e simbolo maschile di giovinezza e rinascita, legato all’elemento del fuoco e del sole”.
Così prosegue: “Si cominciava con il falò di S. Antonio Abate, il 17 gennaio, per continuare con quello che bruciava il re Carnevale e poi quello dedicato a San Giuseppe e ad altri Santi protettori. Probabilmente all’origine di queste feste c’è il mito del fuoco che Prometeo rubò agli dei, per restituirlo agli uomini a cui Zeus l’aveva sottratto per punirli della loro empietà”.
Ci sono riti e modelli che richiamano culture neolitiche e medioevali. La Zanoni ancora: “Per punizione del suo gesto, Prometeo è incatenato ad una rupe del Caucaso, dove ogni giorno un’aquila gli mangiava il fegato, che ricresceva durante la notte rendendo il supplizio eterno” (Maria Zanoni).
Anche in Sardegna è un rito propiziatore. Il cosiddetto ballo tondo di cui parla Grazia Deledda. O il falò pavesiano sul quale non solo ha scritto un libro Pavese, ma ha intavolato un percorso antropologico profondo con “Paesi tuoi” del 1941 e poi con “Feria d’agosto” del 1946.
Il rito del fuoco è il rito del falò. O i falò della tradizione albanese (ziarri, fuoco) con il ballo tondo anche qui in onore di Scanderbeg. Sino al Falò di Grottaglie (la “Foc’ra”, sempre in un contesto geografico Magno Greco – Salentino e Ionico).
Addirittura Eraclito sosteneva: “Il fuoco vive della morte della terra e l’aria vive della morte del fuoco; l’acqua vive della morte dell’aria, la terra della morte dell’acqua”.
Un richiamo etno – antropologico che proviene, come già si è sottolineato, dalla tradizione mediterranea e dall’intreccio di culture dell’Oriente e dell’Occidente è la Focara di Novoli. La fòcara, meglio con l’accento sulla “o”) questa suggestiva parola che rievoca antiche tradizioni e che sta ad indicare in dialetto salentino un falò di legna da bruciare, è diventata una delle principali attrazioni del comune di Novoli, in provincia di Lecce.
In occasione dei festeggiamenti del santo patrono Sant’Antonio Abate, ogni 16 gennaio la fòcara viene accesa da uno spettacolare gioco di fuochi d’artificio che rende particolarmente scenografica la piazza principale del noto paese salentino.
Siamo in un contesto “tarantolato”.
Siamo in un tessuto territoriale Griko.
Siamo nella piana espressione di una demoetnoantropologia greco – mediterranea – arabo – orientale.
L’evento, per la sua spettacolarità, attrae ogni anno migliaia di persone provenienti da tutto il sud d’Italia tanto da essere stato oggetto di un documentario della National Geographic. Al fine di rendere questa tradizione il più possibile originale, alla pira ardente viene attribuita ogni volta una forma differente dotandola, occasionalmente, di un varco centrale all’interno del quale viene fatto passare il Santo durante la processione.
La fòcara è formata da circa 90.000 fascine e la sua preparazione inizia già a metà dicembre. L’origine di questa tradizione non è certa, è tuttavia probabile che derivi da antichi riti pagani o da un terremoto che colpì il Salento diversi secoli fa.
Certo è che questo termine, intriso di fascino e mistero, deve aver colpito anche Dante poiché lo ritroviamo nel XXVIII Canto dell’Inferno: “poi farà sì, ch’al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco.”
In questo caso, pare che il sommo poeta si riferisse al nome di un monte dal quale soffiavano venti impetuosi, ma ci piace pensare che il monte prendesse il suo nome da questa suggestiva tradizione di origine millenaria e dal sapore antico.
Ci sono richiami e rimandi che toccano le culture neolitiche in un geografia in cui il Mediterraneo ha lasciato segni indelebili.
Il fuoco, la legna, le fascine, la notte,,, sono tutte griglie simboliche che rimandano anche a riti sciamani. Infatti il falò è nella tradizioni sia balcaniche che delle culture sciamaniche. Il mondo sciamanico vive di questi riti. Eraclito ancora una volta aveva letto molto bene: “Tutte le cose sono uno scambio del fuoco, e il fuoco uno scambio di tutte le cose, come le merci sono uno scambio dell’oro e l’oro uno scambio delle merci”.
La Focara di Novoli nasce in una tradizione consolidata in cui la grecità, la salentinità e il mondo Orientale e Mediterraneo sono ceselli di una tradizione che si rinnova puntualmente. Perché, dunque, il falò come elemento antropologico? Perché la funzione del fuoco è un richiamo ancestrale tra gli elementi della natura ed è, insieme alla luna, un elemento rivelante come interpretazione profetica del destino. Destino dei popoli e delle civiltà. Tradizione. Diceva bene Cesare Pavese: “Che cos’è questa valle per una famiglia che viene dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne.
Il falò vive di riti e dei luoghi. Il mito del falò ha bisogno dei riti. La danza, il canto, le cantilene, il dialetto come elemento significativo della comunicazione costituiscono elementi di una vera e propria rappresentazione. Il falò diventa teatro. Ha un suo significato esistenziale secondo Cioran: “Avevano ragione quegli antichi filosofi che assimilavano il Fuoco al principio dell’universo, e del desiderio. Il desiderio infatti brucia, divora, annienta: agente e distruttore degli esseri, è oscuro, è infernale per eccellenza”.

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