Aritmeticamente Dante, Divina Commedia

Aritmeticamente Dante, Divina Commedia

Aritmeticamente Dante, Divina Commedia

Armonia triangolare, credit Mary Blindflowers©

 

Di Mariano Grossi©

Aritmeticamente Dante, Divina Commedia

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Proseguendo nell’analisi strutturale della composizione dei canti della “Divina Commedia”, cercheremo di soffermarci ancora una volta su un paio di linee poetiche in cui il poeta cede il microfono ai personaggi del canto, per scandagliare se esse appartengano all’economia narrativa ovvero a quella drammatica studiate a tavolino dal poeta.

Anche nel canto XX, come nel II del “Purgatorio” vi sono due versi che potrebbero far sorgere dubbi sull’appartenenza a una o all’altra delle due quantità, vista l’assenza del verbo di “dire” nel primo (v. 19 “e per ventura udi’ ‘Dolce Maria’ “) e per la corsivazione del secondo operata da quasi tutti gli editori (v. 136 Gloria in excelsis” tutti “Deo” / dicean); ma sono proprio i rapporti matematici vigenti all’interno del canto che ci fanno da didascalia nell’interpretazione dei calcoli proporzionali compiuti dal poeta al momento della progettazione dello stesso. I due versi completano l’economia mimetica disegnata per la composizione, realizzando un perfetto rapporto 2/3 : 1/3 tra versi dialogici riservati ai protagonisti e versi diegetici appannaggio del poeta:

99 drammatici

151 1,5

52 narrativi

Riprendendo quasi testualmente da “Dante e Casella tra narrazione, mimesi, armonia ed aritmetica”, pur non vincolandosi a linee olodiegetiche oppure olomimetiche, Dante utilizza sempre una sorta di spia indicatrice del varco della sezione dialogica per tenerla distinta da quella narrativa; ciò avviene quando i versi che il poeta si attribuisce in qualità di narratore si intendono interrotti per “microfonare” un personaggio ovvero più personaggi; questo gnomone tecnico è costituito da un verbo della sfera del “dire”, espressamente enunciato ovvero ellitticamente sottinteso. Ma la traccia della ricerca del rapporto proporzionale tra quantità narrata e quantità rappresentata è rinvenibile nello stesso Dante, poiché, confrontando quanto si è già scritto analizzando i due canti oggetto di trattazione nei precedenti articoli, il poeta privilegia proprio la ripartizione 1 : 2 tra le due economie, assegnando nel canto XXIV dell’Inferno e nel II del Purgatorio i 2/3 alla narrazione, mentre in questo canto, altamente drammatico e fulcrato sull’intervento centrale di Ugo Capeto, le proporzioni s’invertono ed è la sezione mimetica a far la parte del leone accreditandosi i due terzi del materiale da costruzione. Dunque i due versi sopracitati rispettano i canoni caratteristici delle linee dialogiche, essendo evidente nel primo l’ellissi del verbo di dire (“e per ventura udii (dire) ‘Dolce Maria’”) ed espressamente formulato il verbum declarandi nell’enjambement dell’altro (“ ‘Gloria in excelsis’ tutti ‘Deo’ / dicean”)

Di seguito il testo del canto evidenziando cromaticamente le parti narrate e quelle rappresentate:

Contra miglior voler voler mal pugna;
onde contra ‘l piacer mio, per piacerli,
trassi de l’acqua non sazia la spugna.

Mossimi; e ‘l duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a’ merli;

ché la gente che fonde a goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto ‘l mondo occupa,
da l’altra parte in fuor troppo s’approccia.

Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!

O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?

Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia
pietosamente piangere e lagnarsi;

e per ventura udi’ «Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;

e seguitar: «Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo».

Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,
con povertà volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizio».

Queste parole m’eran sì piaciute,
ch’io mi trassi oltre per aver contezza
di quello spirto onde parean venute.

Esso parlava ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.

«O anima che tanto ben favelle,
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
tu queste degne lode rinovelle.

Non fia sanza mercé la tua parola,
s’io ritorno a compiér lo cammin corto
di quella vita ch’al termine vola».

Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto
ch’io attenda di là, ma perché tanta
grazia in te luce prima che sie morto.

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.

Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.

Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.

Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi,

trova’mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno,

ch’a la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa.

Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.

Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna.

Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

Tempo vegg’ io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ‘ suoi.

Sanz’ arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta.

L’altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l’altre schiave.

O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia c’ha’ il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne?

Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.

Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.

O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?

Ciò ch’io dicea di quell’ unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa,

tanto è risposto a tutte nostre prece
quanto ‘l dì dura; ma com’ el s’annotta,
contrario suon prendemo in quella vece.

Noi repetiam Pigmalïon allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de l’oro ghiotta;

e la miseria de l’avaro Mida,
che seguì a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida.

Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì che l’ira
di Iosüè qui par ch’ancor lo morda.

Indi accusiam col marito Saffira;
lodiam i calci ch’ebbe Elïodoro;
e in infamia tutto ‘l monte gira

Polinestòr ch’ancise Polidoro;
ultimamente ci si grida: “Crasso,
dilci, che ‘l sai: di che sapore è l’oro?”.

Talor parla l’uno alto e l’altro basso,
secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo:

però al ben che ‘l dì ci si ragiona,
dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra persona».

Noi eravam partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n’era permesso,

quand’ io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch’a morte vada.

Certo non si scoteo sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse ‘l nido
a parturir li due occhi del cielo.

Poi cominciò da tutte parti un grido
tal, che ‘l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr’ io ti guido».

Glorïa in excelsis‘ tutti ‘Deo
dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo.

No’ istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che ‘l tremar cessò ed el compiési.

Poi ripigliammo nostro cammin santo,
guardando l’ombre che giacean per terra,
tornate già in su l’usato pianto.

Nulla ignoranza mai con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra,

quanta pareami allor, pensando, avere;
né per la fretta dimandare er’ oso,
né per me lì potea cosa vedere:

così m’andava timido e pensoso.

Anche in questo canto la ricerca della proporzione fra le parti viene confermata non solo nella ripartizione aritmetica dei versi narrativi e dei versi drammatici, ma anche nella compartimentazione scenica della storia. Il canto si abbarbica attorno al lungo intervento di Ugo Capeto dal verso 34 al verso 123 per un totale di 90 linee che ne costituiscono l’aspetto tematico maggiore in rapporto matematico armonico con l’aspetto tematico minore decisamente dinamico, costituito com’è da una prima parte di avvicinamento all’anima protagonista del canto (vv. 1 – 33) e da una seconda di superamento della stessa per la prosecuzione del viaggio (vv. 124 – 151) per un totale di 61 linee.

90 (Ugo Capeto)

151 hy

61 (In cammino)

All’interno dei due aspetti tematici sono rintracciabili, come nei canti precedentemente analizzati, un motivo principale e un motivo secondario, anch’essi ovviamente in rapporto proporzionale fra loro. Nella fattispecie, il tema maggiore si divide in motivo principale denominato “Capetingi” dal verso 34 al verso 84 per un totale di 51 linee, e in motivo secondario denominato “Cupidigia” dal verso 85 al verso 123 per complessive 38 linee; anche questi due motivi scenici sono in rapporto matematico armonico tra loro:

51 (Capetingi)

90 hy

38 (Cupidigia)

Come già detto, prima e dopo l’intervento di Ugo Capeto si struttura il tema minore di 61 linee, anch’esso bipartito in motivo principale dal verso 1 al verso 33 denominato “Avvicinamento ad Ugo Capeto” per un insieme di 33 versi, e motivo secondario dal verso 124 al verso 151, denominato “Superamento di Ugo Capeto” per un totale di 28 versi in rapporto simmetrico:

33 (Avvicinamento)

61 1 : 1

28 (Superamento)

Ma proporzione e simmetria sono ulteriormente rintracciabili anche all’interno delle componenti di tali motivi, dacché il motivo principale del tema maggiore, “Capetingi” di 51 versi è suddiviso in due argomenti, uno di 33 versi (vv. 34-66) excursus storico sui sovrani chiamati Luigi e Filippo, e l’altro di 18 versi (vv. 37-84) sovrani francesi di nome Carlo, argomenti in rapporto aritmetico tra loro; così il motivo secondario del tema maggiore, “Cupidigia” di 38 versi, è suddiviso in due argomenti, uno di 12 versi (vv. 85-96) esempi evangelici di cupidigia, e l’altro di 27 versi (vv. 97-123) esempi mitologici di cupidigia, anch’essi in rapporto aritmetico tra loro.

Altrettanto dicasi per il motivo principale del tema minore, “Avvicinamento” che è simmetricamente bipartito nell’argomento invettiva contro la cupidigia dal verso 1 al verso 15 per un totale di 15 linee, e nell’argomento esempi di povertà e liberalità dal verso 16 al verso 33 per un totale di 18 linee. Mentre il motivo secondario del tema minore, “Superamento”, è aritmeticamente ripartito nell’argomento immobilismo da terremoto dal verso 124 al verso 141 per un totale di 18 linee, e nell’argomento ripresa del cammino dal verso 142 al verso 151 per un totale di 10 linee in rapporto aritmetico tra loro.

L’architettura scenica globale del Canto XX è pertanto così rappresentabile in grafica:

33(Sovrani Luigi e Filippo)

51(Capetingi 1,5

18(Sovrani Carlo)

90(Ugo Capeto) hy 27(Esempi mitologici di cupidigia)

38(Cupidigia) 1,5

12(Esempi evangelici di cupidigia)

151 hy 15(Invettiva contro la cupidigia)

33(Avvicinamento) 1:1

18(Esempi di povertà e liberalità)

61 (In cammino) 1:1 18(Immobilismo per terremoto)

28(Superamento) 1,5

10(Ripresa cammino)

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Rivista Il Destrutturalismo

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