La morte del mito©

La morte del mito©

Di Mary Blindflowers©

Graal, mixed media on paper, by Mary Blindflowers©

 

Il mito con il dono perpetuo dell’inattingibilità, è per le masse il sogno identificativo dentro cui cullare ambizioni sopite e immaginazioni fritte di bugie. Il mito non crolla perché la volontà del mono-pensiero, prono al super-ego, si mantiene forte e ha basi d’acciaio che poggiano sulla debolezza delle sinapsi collettive.

Siccome la morte non va tanto per il sottile e non rispetta per fortuna nessuno, indipendentemente dalla fama che può raggiungere sulla terra fragile e folle, anche un personaggio definito “mito”, finisce inesorabilmente per morire.

Così si parla di dolore e si sentono frasi del tipo: “oggi è morto dio”, “oggi è morta una parte di me”, “i miei parenti possono anche morire ma non riesco a sopportare la morte del mio mito”, etc. Questo tipo di espressioni, oltre ad essere grottesche e ridicole, rappresentano la negazione del dolore nel momento stesso in cui lo affermano con tanta insistenza.

È la mistificazione della coscienza, un processo in cui l’uomo medio si rende conto che anche gli idoli scompaiono, che invecchiano esattamente come lui, come tutti. Non è affatto dolore, è soltanto la paura della propria morte veicolata nel simbolo, unita al desiderio che il punto fermo rimanga inossidabile nel tempo e possa perfino sfidare i secoli. Capire questo richiede capacità analitiche che consentano di superare la spiccata tendenza all’investimento ipnotico-narcisistico presente in ogni uomo. Il movimento principale del narcisismo libidico è caratterizzato da un eccesso di idealizzazione del Sé che va nutrito e curato tramite un processo naturale di identificazione con oggetti protettivi ed introiettivi, i cosiddetti “oggetti buoni”, dotati di qualità particolari. 

Nietzsche si chiedeva come mai ci siano al mondo più idoli che realtà. Forse perché l’idolatria è un processo dalle dinamiche elementari, che non richiede grandi sforzi interpretativi del reale, un’alchimia comoda, facile per la massa e gestita opportunamente dalla pubblicità.

L’idolo, che sia dio o una rockstar, infatti è rassicurante, stabilizzante, un punto di riferimento per equilibri fragili, a tal punto essenziale che l’adoratore lo introietta sentendolo parte di sé, di quel sé identificato nella rassicurante sintesi del simbolo buono. 

E se il corpo fisico del simbolo dovesse mai morire, deteriorarsi, seguendo la sorte di ogni comune mortale non divino, l’idolatra si sentirebbe perfino stupito. 

Ma come? Dio non muore, il vampiro nemmeno! L’idolo che abbandona la terra, crea lacerazioni negli ingenui, incredulità nei direzionabili, in tutti coloro che pensano attraverso i filtri dei media, gli stessi media che hanno decretato che un personaggio X piuttosto che un altro, sia un mito.

L’adoratore sentirebbe di morire in parte con lui e confonderebbe il dolore per quel suo Sé identificato e mesmerizzato, con il dolore per l’idolo che, di fatto nella realtà è e rimane un perfetto sconosciuto. Non a caso si dice sempre che non bisognerebbe mai conoscere veramente i propri idoli. Infatti, meglio evitare la conoscenza diretta, perché l’idolo attiene ad un mondo che non è reale, fa parte di una sofisticazione, è un miraggio, un inganno del subconscio che ha bisogno di nutrirsi di favole per continuare a darsi una ragione di vita, nel mondo, in poche parole per esserci ancora e sciorinare la propria presunta sensibilità.

Così magari mentre l’idolatra apprende alla Tv la dolorosa notizia della morte di una star del cinema, il vicino, proprio nell’appartamento accanto, sta riempiendo di botte la moglie. L’idolatra alza la Tv per non sentire niente e comincia a piangere per la morte del mito mentre la signora della porta accanto viene massacrata.


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