Il tempo di Lula

Il tempo di Lula

Il tempo di Lula

Di Mary Blindflowers©

Memorie del tempo di Lula, credit Mary Blindflowers©

 

Memorie del tempo di Lula di Antonio Mura Elena, viene pubblicato nel 1997 da Editrice Democratica Sarda, nella collana La Biblioteca di Babele n°. 9, letteratura sarda plurilingue. Certamente l’autore non ha la grazia e la passione lirico-letteraria della Deledda e neppure la sua potente e trascinante forza espressiva, tuttavia il libro ha il merito di mostrarci uno spaccato di vita quotidiana sarda relativa a Lula, un piccolo comune barbaricino. Si tratta di racconti che sembrano più cronaca di vita vissuta che esposizioni di fantasia e danno concretezza ad un microuniverso antropologico negli anni precedenti la prima guerra mondiale. Si descrive un paese povero, le feste, il tempo ordinario della scuola, gli svaghi dei ragazzi, il linguaggio segreto e simbolico: “in quel tempo a Lula non avevamo né cinema né teatro, ma gli spettacoli c’erano ugualmente. Potevamo assistere alla commedia, al dramma e alla farsa. La commedia la facevano le donne, quando litigavano. Perché litigavano a lungo per intere giornate. E adoperavano, non solo parolacce, ma anche un linguaggio fiorito di immagini, una mimica eloquente e un rituale di gesti simbolici. Per esempio: issare al balcone una scopa a mezz’asta voleva dire: “sei un’immondezza”; posare un canestro con pane e formaggio al davanzale voleva dire “sei un morto di fame”; lisciarsi con un gesto ampio i capelli voleva dire “non mi passa neanche per il capo”; e così via. Ad ogni simbolo corrispondeva un controsimbolo e il risultato drammaturgico del loro anternarsi era imprevedibile”.

I racconti si snodano così tra preti analfabeti e impiccioni, ispettori postali che portano il loden in piena estate perché hanno i pantaloni rotti sul sedere, maestri che schiacciano gli scolari tra la lavagna e il muro e i giochi primitivi delle bande di ragazzi. Quasi un memoriale, un ripercorrere il tempo di Lula attraverso i ricordi.

La parte peggiore del libro è l’orribile prefazione di Nicola Tanda. Questi parte con una sterile quanto inutile polemica contro l’idealismo che pretenderebbe “di assurgere ad un concetto assoluto dell’arte, ponendola in un irraggiungibile iperuranio, fuori dalla storia quotidiana degli uomini”, con spiacevoli conseguenze nella letteratura e nel cinema. L’idealismo avrebbe prodotto una “deriva elitaria” che mortificherebbe creatività e linguaggio poetico. Non adduce esempi pratici di questo depauperamento di energie artistiche, per cui la critica cade nel vuoto e rimane fine a se stessa. Se l’obiettivo da colpire è l’idealismo cruciano contro cui mi sento di condividere le rimostranze, comunque non è specificato, e l’invettiva forse avrebbe potuto trovare sede migliore per essere formulata, che non una prefazione ad un libro di racconti. Il prefattore non manca nemmeno di sottolineare che Antonio Mura Ena è nipote del più noto Giovanni Antonio Mura, sacerdote e scrittore, autore del romanzo “La tanca fiorita”. In realtà il fatto di essere nipote di qualcuno non è che aggiunga valore ad un’opera letteraria, quindi anche questa notazione, tra l’altro ripetuta nei risvolti della copertina, appare pleonastica.

Il punto di vista “interno”, chiamiamolo così, del narratore del libro, che in fondo, non fa che ricordare e riportare sulla carta episodi della storia di Lula, è in realtà un limite di quest’opera. L’autore è come un cronista che racconta fatti sentiti. Alcuni racconti sono anche un po’ noiosi perché manca l’elaborazione creativa, sono solo episodi riportati. Manca in quasi tutti quella tensione, quel pathos e quella profondità poetico-onirica che possano far gridare veramente al capolavoro. Sembrano episodi scritti da uno che sa far più di conto che imprimere emozione a descrizioni e dialoghi. Sono resoconti freddi, cronachistici, mancano i colpi di scena, le intuizioni geniali. Lo stesso autore ammette candidamente di non essersi inventato nulla: “chi scrive non è stato presente ma ha avuto notizia”.

La prefazione che esalta poi il testo in modo del tutto acritico e di parte, sottolineando insistentemente il valore della sardità e di un modello letterario fortemente legato all’Isola, è in alcuni punti, condita di periodi troppo lunghi, perfino sgrammaticata: “Anni di studi della comunicazione letteraria e di esperienza, in particolare di quella che si svolge e si è svolta in Sardegna, di una produzione e di una circolazione cioè che avviene in un ambito circoscritto con specifiche distinzioni linguistiche, storiche ed etniche, mi ha spesso indotto a riflettere sugli effetti negativi della cultura idealistica”.

Anni di studi mi ha spesso indotto…” Al di là del verbo spudoratamente errato, la frase contiene una sorta di intellettualistico autocompiacimento da studioso consumato. Egli perora una causa che forse va molto al di là del contenuto del libro che vuole introdurre. Poi la ridondanza con cui ripete che le grandi letterature non possono che nutrirsi di identità linguistiche del luogo di appartenenza, tradisce un pensiero fisso teso ad esaltare campanilisticamente l’arroccamento in una posizione sarda che vive drammaticamente l’assimilazione della cultura italiana. Addirittura i critici letterari non sarebbero dotati degli strumenti adatti per capire la cultura sarda. C’è in tutto questo una tendenza all’eccessivo compiacimento del tipico, dell’esotico e una critica a chi non prende in considerazione l’universo antropologico sardo nel suo stile di scrittura: “Ci sono scrittori sardi per i quali l’universo antropologico sardo non viene neppure preso in considerazione poiché si collocano, con i loro testi, al centro del sistema letterario italiano ed equivocando, a mio avviso, ne condividono totalmente il punto di vista. Altri invece, che si collocano all’interno del sistema culturale e linguistico sardo, anche quando impiegano l’italiano, e si preoccupano di trasferirvi l’esperienza sardofona del vissuto antropologico sardo”.

In poche parole un sardo che non ricalca la lingua sarda nel suo stile di scrittura, commette un equivoco. Tanda non specifica nel suo elucubrare, la natura esatta di questo preteso “equivoco”. Anzi, subito dopo, contraddicendosi, ci dice che entrambe le posizioni, sia quella di chi usa il registro sardo anche nello scrivere in italiano, sia quella di chi non lo usa, sono “plausibili”.

Una prefazione confusa, anche mentalmente chiusa, che definisce ed etichetta con il termine di letteratura tutto ciò che è legato in modo esclusivo alla cultura di appartenenza. Appare quasi obbligatorio legare i propri scritti alle tradizioni del luogo natio. Ma se la letteratura è sogno e libertà, come si possono stabilire regole precise? Come si possono concepire degli obblighi? E poi perché condannare l’iperuranio? Anche lì nascono le storie. L’unica regola è che non ci sono regole perché la narrativa non è un compito di ragioneria, e nemmeno un docente universitario può dare il peso e la misura della letteratura.

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=8TXH-FcEq_A

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