Moccia, il raccomandato per veri depensanti©

Moccia, il raccomandato per veri depensanti©

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

L’uomo che pensa, mixed media on paper by Mary Blindflowers©

 

Me ne sono andato io,
è vero.
Io non ho voluto combattere
la mia battaglia,
non ho saputo difenderti
fino in fondo.
Ma a volte
se penso a dove potresti
essere ora, o con chi…
se immagino che magari
stai baciando un altro
o lo stai andando a prendere
perché lui ha preparato una sorpresa…
provo un dolore,
una piccola fitta di gelosia.

Federico Moccia

Capita, commovente! Federico Moccia cum-movet, nel senso di sommuovere omnicomprensivamente tutti i sensi emotivi del lettore che s’interroga sulla valenza universale, diacronica e sincronica al contempo, delle sue liriche profondissime (solamente Leopardi usa l’aggettivo profondo al superlativo… a testimoniare quanto ci abbia colpiti leggere il Moccia!). Poco importa se nel suo impianto lirico, nel suo ordito poietico non vi sia un’assonanza che sia una, né una metafora ovvero altre figure retoriche che ne usberghino la confezione tecnica! In un mare mortuum tecnico giace una kardia contenutistica di difficile dissolvenza nella memoria di chi legge! Piange il lettore di Moccia, piange il decesso della creazione lirica e del vaglio critico degli esegeti che la editano e la commozione come dicevamo in ingresso è devastante! Riecheggiano nelle sue facezie solipsistiche di uomo sconfitto le note di capolavori della musica leggera italiana (che patrimonio! Che pedigree!), ma è lecito l’anelito emulativo dell’autore: “Se son diventati immortali nello stivale tricolore le parole e le note di Mogol e Battisti con “E penso a te”, “Non piangere salame dai capelli verde rame”, perché non lo posso diventare io con le mie prosa-liriche?”

“Ho voglia di te”.
Perché quando ami non c’è altro da dire.
È inevitabile.
Può accadere di tutto,
possono dirti qualunque cosa,
cercare di convincerti del contrario.

Ma dentro, nel tuo cuore,
nel tuo animo, nella tua testa,
girano solo quelle parole.
Ho voglia di te.
Quando ridi, quando lo aspetti,
quando lo cerchi, quando lo pensi.
Ho voglia di te.
Quando guardi le cose, quando mangi e sbuffi,
quando dormi, quando sogni…
Ho voglia di te.
Quando hai paura, quando ti abbracci,
quando ti arrabbi e te ne vai.
Ho voglia di te.

Di mattina, di sera, di notte.
Quando fai altro.
Ho voglia di te.
Anche se ti fa male,
anche se a volte non andrà come doveva.
Ho voglia di te.
Forse questa è la risposta.
Perché le risposte, a volte,
arrivano quando meno te lo aspetti.
O fors
e proprio quando non le aspetti più.
[… ]
La vita sorprende, ti prende,
ti cerca, ti vuole.
Non ti molla.
Ti riempie di suoni, colori, sguardi, tuffi al cuore.
Quella stessa vita che tempo prima
ti aveva sbattuto a terra.
Senza risposte.

Le risposte che tutti cerchiamo sempre.
Ma a volte a dartele non sono
le persone che ti aspettavi.
E per qualche risposta in più
che ora hai in tasca,

ci sono mille nuove domande che arriveranno.
Perché il gioco della vita non si ferma.
E l’amore ha le sue regole,
sempre diverse da come le avevi impostate…
Perché l’amore non ha un suo perché…
Perché… Ho voglia di te.

Federico Moccia

Dal libro “Ho voglia di te”.

Questa magnifica saga del pensiero fisso e maniacale sublima l’essenza dell’afflato erotico muliebre verso il maschio e ci spostiamo per lo meno su un livello più adeguato nelle rade assonanze che il poeta (?) ci regala (“La vita sorprende, ti prende” “ Perché l’amore non ha un suo perché… Perché… Ho voglia di te” ) e che decolorano gli errori grammaticali che gli scappano (Quando ridi, quando lo aspetti, quando lo cerchi, quando lo pensi.; può sfuggire ad un vate impregnato di theia moira che pensare a differenza di aspettare e cercare si usa intransitivamente…); pare udirlo il Moccia: “Signori, avete fatto grande Ungaretti con un’unica linea poetica, perché non dovrei esserlo io che in 40 versi realizzo un errore grammaticale e due assonanze?” E pare udirlo scagliarsi esacerbato contro Pistis e Asebès: “Ma non eravate voi quelli che avete ustionato a fiamme e fuoco i trombonismi dell’oscuro Pontiggia? Perché adesso trucidate la mia trasparente e sciatta comunicazione morfologica e lessicale?”

E davvero ci sarebbe da chieder scusa a Pontiggia che almeno prova a far suonare i suoi fiati
senza comunicare nulla: Moccia è apertamente e ordinariamente insonoro perché la sua saggezza da mercato rionale non produce alcuna nota né criptica né aperta; almeno noi non ci ravvediamo alcuna musicalità di verso né alcuna pregnanza universale autonomamente rielaborata.

Moccia che pubblica coi grossi gruppi editoriali il suo puro distillato di sterco in versi e non, tuttavia vende. Questo dà la misura dello stato mentale del popolo italiano, dà la misura della coercizione esercitata sulle coscienze dalla pubblicità e dalla larga e massiccia diffusione del libro-spazzatura che possiamo trovare ad ogni angolo, nelle librerie in vetrina, nei centri commerciali, negli autogrill. Insomma dove ti giri, ecco che spunta il libro di Moccia, lucido, fragrante, un invito a chi non ha mai letto nulla in vita sua. Così vale la teoria che si vende ciò che si vede e si pubblicizza. Ma perché Moccia che non sa scrivere alcunché pubblica coi grossi gruppi editoriali? La risposta la sanno pure le pietre. Perché è figlio di Giuseppe Moccia, il famoso Pipolo. Scenggiatore, politico, regista, autore di numerosi film e spettacoli televisivi. Se fosse stato figlio di nessuno gli editori grandi e piccoli, dato il talento che dimostra, praticamente pari a zero, gli avrebbero riso in petto. Ma la politica può tutto in un Paese mediocre come l’Italia. Comprare i libri di Moccia equivale semplicemente a non leggere. Pubblicarlo significa contribuire in modo criminale alla costruzione di ciò che il sistema vuole, una massa depensante che osanna l’idiozia e l’innocuità intellettuale del nulla. Siamo alla fine della letteratura e della cultura. Ringraziamo la grande editoria e la politica.

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