La legge Basaglia, quando le parole non bastano©

La legge Basaglia, quando le parole non bastano©

Di Annamaria Bortolan©

“The door”, mixed media on paper by Mary Blindflowers©

 

La legge 180 del 13 maggio 1978, o legge Basaglia, dal nome dello psichiatra Franco Basaglia, promotore della riforma psichiatrica in Italia, è da considerarsi l’unica legge quadro relativa alla chiusura dei manicomi, con la regolamentazione dei TSO, o trattamenti sanitari obbligatori e dell’istituzione dei centri di salute mentale pubblici (CSM). Prima di tale innovazione, i malati psichici venivano segregati all’interno di strutture contenitive e curati con terapie molto dure, prossime alla tortura. In tempi recenti è emerso anche il problema di pazienti, prevalentemente affetti da comuni disturbi d’ansia, che venivano segregati al solo scopo di assecondare la volontà dei parenti, più che per porre rimedio a una sintomatologia grave. Insomma, il manicomio italiano era il luogo della perdita degli affetti, del non-senso, della disperazione contenuta da farmaci potenti e dagli elettroshock. Lo psichiatra appariva come un uomo di violenza, più che di cura, freddo e cinico nella sua spietatezza. L’idea portante della riforma era quella di umanizzare le cure psichiatriche, migliorando il rapporto tra medico e paziente, ridando dignità a quest’ultimo che, trattato come essere umano, sarebbe stato riconosciuto nei suoi pieni diritti all’affettività, al possesso di denaro, al lavoro, alla salute, alla libertà.

La formazione personale del neuropsichiatra Franco Basaglia (1924-1980) si è indubbiamente giovata della sua personale agiatezza economica in età giovanile che gli consentì la possibilità di studiare e confrontarsi su più livelli, anche politici. Militante nel Partito Socialista Italiano, attento agli studi filosofici oltre che psichiatrici, dopo il matrimonio con Franca Ongaro che gli diede due figli, venne chiamato a dirigere un manicomio a Gorizia nei primi anni Sessanta. La Ongaro, laureata in scienze politiche, saggista e assistente psicologica, sorella dello scrittore Alberto Ongaro, fu dal 1983 al 1992, senatrice della Sinistra Indipendente e autrice del disegno di legge di attuazione della legge 180 che portò alla stesura del testo base del Progetto obiettivo salute mentale (1989). Il fatto che fosse laureata in scienze politiche (e non in psichiatria) non parve essere un ostacolo alla sua volontà di portare a compimento i desideri del marito, dopo la sua scomparsa. Ma non c’è da meravigliarsene: in Italia hanno sempre contato le parentele, le amicizie e le prossimità politiche più che la propria specializzazione personale, tant’è che attualmente possiamo vantare la presenza di un numero considerevole di personalità di spicco del tutto sprovviste di quelli che dovrebbero essere i requisiti minimi per arrivare in Parlamento, se è vero che, secondo i dati ufficiali della Camera, nel giugno 2016 solo il 68,73 % degli onorevoli risultava laureato. Senza contare quanti possiedono un titolo non inerente alla funzione che ricoprono e alle problematiche che dovrebbero affrontare e risolvere.

Dopo che alcuni pazienti trattati secondo le direttive di Basaglia, ossia liberati fisicamente dalla struttura manicomiale, assassinarono brutalmente i loro familiari, la destra triestina lo attaccò con vigore ma tali attacchi vennero considerati dall’opinione pubblica come pure denigrazioni. Così la riforma proseguì con la chiusura dei manicomi, sollevando la sanità pubblica dalle spese non indifferenti del mantenimento di soggetti lungodegenti, se non internati a vita. Infatti se è vero che il malato, giustamente, deve godere del diritto alla libertà, agli affetti e di un adeguato inserimento sociale, resta il fatto che di tutto ciò i familiari dei malati non usufruiscono, vedendo, in molti casi, la loro vita rovinata in modo irreparabile e dallo stigma (l’essere parenti di malati psichici gravi è considerato tuttora come un valido motivo di apartheid sociale) e dalle circostanze di vita aberranti a cui si trovano incatenati per anni. Sapete cosa vuol dire essere minacciati di morte e non poter godere dei più comuni diritti a cui tutte le persone hanno accesso nella nostra società? Sapete cosa vuol dire ammalarsi fisicamente, passando da una malattia grave all’altra, per lo stress continuo a cui si è sottoposti? Se non lo sapete e se proprio volete continuare a sostenere la visione basagliana delle cose, a mio modesto avviso dovreste offrirvi come volontari: prendetevi in casa un malato per uno o due mesi e dategli l’assistenza che merita. Improvvisatevi psichiatri, psicologi, neurologi, infermieri senza esserlo. Liberate una famiglia per un breve periodo dalla condanna che grava sulla sua testa e, solo allora, avrete il diritto di aprire bocca e di sostenere questa legge. Oppure mettetevi al posto di chi ha perso un figlio o una figlia perché uccisi da un folle, se ci riuscite.

http://www.arap.it/ è il link del sito dell’Associazione per la Riforma dell’Assistenza Psichiatrica, fondata nel 1981 da familiari ed amici di malati di mente allo scopo di sollecitare l’integrazione della Legge 180 per ottenere una reale assistenza e risolvere realisticamente il problema principale: curare il malato non consenziente, in quanto con tale riforma sono state smantellate le strutture esistenti senza prima crearne di nuove. Ascoltiamo due testimonianze di familiari proposte dall’Arap sul sito già citato.

Una madre racconta: “Io rischio la vita tutti i giorni. Tutti i giorni devo essere pronta a fuggire come una volpe quando lui mi dice: “Oggi mi dai fastidio, è meglio che te ne vai di casa”. Sono sola, in casa devo fare tutto, i soldi non bastano. La notte, se lui non è più che calmo, io a dormire non ci vado. Dormo a pezzetti, come un cane, con un occhio aperto e uno chiuso. Alla mattina sono distrutta. Rischio costantemente l’aggressione o la morte. Il sabato e la domenica al CIM non c’è nessuno. Ogni quindici giorni un medico con l’infermiere gli viene a fare la puntura. E tutti gli altri quattordici giorni, che faccio da sola? Portate questo mio figlio dove può essere curato, invece di criminalizzare le famiglie! Ma non lasciatelo tornare a casa se non è ben guarito, perché mi ha avvisato che al ritorno dalla clinica psichiatrica mi ammazza”.

E una ventiduenne che vive col fratello psicotico scrive: “Con la legge Basaglia si sono chiusi i manicomi, che erano luoghi pubblici veramente deplorevoli, ma, seppur involontariamente, sono stati aperti tanti piccoli manicomi familiari (low cost) in cui il controllo non è nelle mani dei medici ma degli stessi malati che quasi sempre non hanno nessuna intenzione di curarsi (perché la malattia mentale non è quasi mai accettata dal malato che crede di star bene) e dettano legge in casa. Lo psichiatra di mio fratello lo ha in cura sulla carta ma non lo vede neppure, non ci chiama, neanche per chiedere come va! Ha accollato le cure a noi. La cosa che più mi fa rabbia è che lui sa quanto sia pericoloso, eppure se ne lava le mani! E lo Stato lo appoggia in questo! L’assistenza al malato dovrebbe essere obbligatoria, perché allora noi siamo abbandonati a noi stessi? Nella nostra Italia si pensa agli animali e non si pensa ai malati e alla malattia mentale. (…) Perché si aspetta che avvenga una tragedia prima di far qualcosa?”

Probabilmente perché in Italia vige la legge dell’interesse personale e dello schieramento aprioristico dal punto di vista politico, mai che si ragioni con la propria testa. Così, parlare di messa in discussione della legge 180 (non necessariamente riaprendo i vecchi manicomi) appare un’iniziativa blasfema a moltissimi, al punto che solo a nominarla c’è da rischiare l’isolamento sociale. Sarebbe ora di finirla di politicizzare ogni cosa e comprendere che uno schizofrenico che rifiuta le cure, non agisce nella sua piena libertà, in quanto nemmeno si rende conto di essere malato.

Chi volesse approfondire ulteriormente la questione può mettersi in contatto con l’Arap. Ne ho parlato anche io in un mio romanzo. Una storia che ho voluto raccontare, dopo anni di indagine sul campo, nel tentativo di aprire gli occhi e il cuore.

Ammettendo che l’Italia e gli italiani una piccola porzione di cuore ce l’abbiano ancora.

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