Franco Fortini, politica, “poesia”

Franco Fortini, politica, "poesia"

Franco Fortini, politica, “poesia”

Franco Fortini, politica, "poesia"

La mattina allegra, credit Mary Blindflowers©

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

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Agli dèi della mattinata

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Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua.
Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla.
La mattinata si affina nella stanza tranquilla.
Un filo di musica rock, le matite, le carte.
Sono felice della pioggia. O dèi inesistenti,
proteggete l’idillio, vi prego. E che altro potete,
o dèi dell’autunno indulgenti dormenti,
meste di frasche le tempie? Come maestosi quei vostri
luminosi cumuli! Quante ansiose formiche nell’ombra!

(F. Fortini da Questo muro, 1973)

Chi sono gli dei della mattinata che Fortini celebra in un’inerte e assolutamente prosaica poesia della raccolta del 1973, intitolata presagamente “Questo muro” (in tema di mutismo comunicativo)? Non si riesce ad intuirlo. La pedissequa lirica fotografa una mattina piovosa ed il poeta registra otticamente lo scuotimento di allori e pini ad opera del Dio Anemos, il vento, una sorta di eolica cucciolata, pensiamo. Cortina idrica obnubilante la vista sulle finestre… andiamo oltre: “La mattinata si affina nella stanza tranquilla”; ci si chiede: quale accezione assume qui il riflessivo “affinarsi”? Si perfeziona? Mediante gli scrosci? E perché mai? Ravvede il poeta una funzione dilavantemente catartica nella cascata idrica? Oppure la mattinata migliora, progredisce atmosfericamente? Parrebbe di no, poiché il mattino autunnale non evapora in corso d’opera, ma vi rimane immanente. Procediamo scettici sul piano dei flussi emotivi: foto di domicilio in un interno: “Un filo di musica rock (splendido abbinamento quello dello scuotimento alla Mercury e l’uggiosità post-estiva!), le matite, le carte”…e poi? Esplosione estatica: “Sono felice della pioggia”. Bene! Gioiamo con il poeta, non comprendiamo l’eziogenesi della sua felicità, ma ci adeguiamo. Segue una invocatio: “O dei inesistenti, proteggete l’idillio, vi prego”: avremmo bisogno di un punto esclamativo, così ci avevano insegnato alle elementari, in clausola di frase col complemento di vocazione, però consideriamo licenza poetica questa omissione; vorremmo addentrarci piuttosto in questa razionalissima preghiera ad un insieme di divinità definite inesistenti: che cos’è? Una presa di distanza da una logica politeista? E il quadretto da proteggere (questo significa etimologicamente idillio) quale sarebbe? L’atmosfera innamorata che ha creato la pioggia nella psiche del poeta? Parrebbe l’unica valenza riservata loro dall’autore, visto che, a stretto giro, post invocationem, sgorga una disillusissima interrogativa retorica: “E che altro potete, o dei dell’autunno indulgenti (indulgono a che?) dormenti (parevano attivissimi nella mattinata umidissima… Ci pare un resoconto alquanto contraddittorio!), meste di frasche le tempie (qui il poeta diventa aulico, con un inatteso rigurgito di classicissimo Accusativo di relazione alla greca!)?” Il tono si eleva vieppiù in quell’esclamativa finale dove stavolta inopinatamente troviamo l’ellissi del predicato e, udite, udite!, il punto esclamativo perso nella precedente invocazione: “Come maestosi quei vostri luminosi cumuli!”Ci chiediamo di quali abbaglianti mucchi si tratti, dato che non si capisce. Parla meteorologicamente di nubi basse a grandi volute ovvero a forma di cupola? Di lampi? Rimaniamo scettici come per la finale preoccupazione per le ambasce delle formiche abbisognevoli, parrebbe, di dosi di Tavor che infestano la stanza del poeta.

Hofmannsthal diceva che il compito supremo di un poeta, “il servizio di Orfeo”, consiste in due momenti opposti e complementari del distruggere e del creare concetti, in tal modo favorendo la “palingenesi della lingua” che consente di conoscere se stessi e il mondo.

Fortini si limita semplicemente a riprendere temi di matrice ottocentesca e riproporli senza elaborazione creativa, come materia morta, incomunicabile, foglie cadute dall’albero dell’inutilità riproposta e rimestata. Dov’è dunque l’immagine geniale, la palingenesi, la conoscenza nei suoi versi?

Dove sono i versi stessi? Cos’è questa prosa cadenzata e romantica spacciata per poesia? A che serve? A chi serve? A far politica? A credere e far credere che gli eroi della parola e i geni debbano appartenere ad un partito politico?

Saremo grassamente insensibili ovvero ignoranti, ma a noi Fortini pare, antiteticamente al suo cognome, appartenere alla schiera dei Debolucci quanto a universalizzazione e introiezione dei meccanismi emotivi. Ci inchiniamo rispettosi davanti all’episteme dei critici che l’hanno annoverato nel Gotha dei grandi contemporanei, e agli editori che lo ripubblicano in continuazione, ma francamente poesie così timidamente basculanti tra ansia trascendentale nelle invocazioni alle divinità atmosferiche autunnali e fotografia del quotidiano di casa propria, non ci entusiasma minimamente.

C’era davvero bisogno di riproporre tutte le sue tediose poesie in Oscar Mondadori, quando ci sono nuovi poeti che forse meriterebbero più attenzione? Ah certo magari il nuovo povero sperimentale poeta non conosce nessuno. Vero, vero, di questo bisogna tener conto. Il povero nuovo poeta non ha sicuramente i giusti agganci per insegnare all’università da cui nascono tutte le cose visibili e invisibili e i magheggi che conducono in meno di un amen al meraviglioso mondo della grossa editoria che conta. Certo, certo, ci vuole minimo una tessera in Italia, un sigillo di appartenenza, un marchio in fronte, e poi come diceva quel folle di Bene, l’arte è borghese oltre che qualche altra cosa, quindi ci sono condizioni precise per diventare poeti d.o.c. In poche parole con la sola arte non si va da nessuna parte, in barba alle palinengesi di Hofmannsthal, al distruggi e crea e a tutte le belle parole evocanti talento e bellezza.

Ovviamente nel caso di Fortini, che è in realtà un pessimo poeta e un imitatore ottocentesco, ci troviamo per l’ennesima volta di fronte ad un uomo di partito, un uomo di sinistra, e ovviamente (ma guarda che combinazione), Professore di storia della critica all’Università di Siena, insomma uno che ha partecipato attivamente alla vita politica del suo tempo, l’idolo degli intellettuali marxisti. Ma questo è sufficiente per dargli il sigillo del grande scrittore e poeta? I compagni lo sanno che un poeta non ha etichette? E’ sufficiente una cattedra e un po’ di politica per far diventare Giunone simile a Venere?

A quanto pare sì.

A noi rimangono i suoi scritti, saggi non particolarmente esaltanti e poesie così così riproposte continuamente in tutte le salse da un’editoria stanca e schiava del potere, che scambia allori e pini per versi divini.

DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

Comment (1)

  1. Anna Maria Dall'Olio

    Ne ho sentito tante migliori al premio Montano.

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