“La pietà del bianco”, il verso stanco della Taravella©

“La pietà del bianco”, il verso stanco della Taravella©

Di Mary Blindflowers©

Il molo in disuso, credit Mary Blindflowers©

“La pietà del bianco”, di Antonella Taravella, libro autoprodotto, dedicato alla madre, è il trionfo di un verso convenzionale e artatamente intimistico, fondamentalmente innocuo nel suo dispiegarsi a loop. Completa assenza di qualsivoglia tematica sociale. Ridondanza di immagini che si ripetono per dare la sensazione del bianco e del nero, della luce e del buio. 

L’uso costante dei diminutivi rimanderebbe, secondo le intenzioni dell’autrice, a tempi pre-adulti, il suo tempo infantile oltre il quale non riesce a passare.

E pre-adulta appare pure la conformazione dei versi, spesso semplicemente prosa, nemmeno tanto poetica: chiedo la pietà del bianco/ che fa miracoli anche quando non si respira/ diventando una storia o una seggiolina traballante/ fino a quando mi sollevo la gonna sulle gambine…

Il passato viene vissuto attraverso diminutivi che appaiono spesso leziosi, forzati, mentre l’autrice cerca inutilmente di tirare “i capelli alla memoria”, termine su cui è giocato tutto il libro in cui una “parola riemerge nel bosco dei suoi pensieri”, “dando la boccuccia in pasto al segno”.

Una produzione che non va oltre le personali sensazioni dell’autrice, sviluppata tutta sulla linea intima delle sue stesse percezioni che fanno tuttavia fatica a tradursi in comunicazione universale.

Il tema del deglutimento della luce, “ingoiando la luce”, è attinto dal repertorio classico. È un topos comunissimo da Pindaro in giù, utilizzato da Orazio, Virgilio e perfino Apollinaire.

Il bianco come simbolo di purezza materna legata alla nudità fisica e spirituale, è altro tema abusatissimo, idem il nero come chiusura e oscurità in cui celarsi e il rosso come elemento perturbatore. Ma non è questo il vero problema. I tre simboli chiave, chiamiamoli così, “bianco”, “nero” e “rosso” che si prestano ad infinite combinazioni artistiche, qui non vengono elaborati in modo sufficientemente creativo, ma rispondono ad un topos già sperimentato. In questo consiste il grande limite di quest’autrice, nella scarsità di immaginazione, zero creatività, zero sperimentalità. 

Invano cercherete ritmi sperimentali in queste liriche “collaudate”.

Credo possano piacere perché i lavori collaudati, così familiari, così già visti, protettivi e “sicuri”, attirano gli spettatori ingenui che si sentono immediatamente rassicurati.

Ma il compito di un poeta è davvero quello di rassicurare? Avvolgere con fili di memoria personale il mondo? Permeare di sé la pagina ed esaurire tutto in quest’atto di autocompiacimento?

Non si pretende piuttosto un oltre che qui manca del tutto? Quell’oltre che ti graffia e che ti fa dire, mi piace, perché è insolito, nuovo, fresco, coraggioso; mi piace perché sfida il mondo, non lo tratteggia soltanto.

Il risultato estetico di questa “pietà sbiancata”, di questo verso stanco e collaudato, è senz’altro gradevole, bisogna ammetterlo. Ma la gradevolezza è data solo dal fatto che si tratta di un materiale già sperimentato da altri prima di lei.

Niente di nuovo insomma.

A che serve comunicare sensazioni tattili, visive e uditive senza la loro universalizzazione?

A scrivere poesie gradevoli, sicuramente, ma poco dense, tutte uguali, versi che si ripetono nell’egotismo delle percezioni soggettive, estinte in una “grammatica di gesti” che non buca la superficie del mondo, la sfiora soltanto, come una carezza fine a se stessa.

Ma il lettore vero vuole essere accarezzato o spinto oltre se stesso?

Propendo per la seconda ipotesi anche se non ci sono verità apodittiche.

Non ho visto nulla oltre quello che ho letto, manca del tutto quel quid inespresso che mi faccia dire, signori, questa è poesia. Il silenzio che definisce “cosmico”, rimane un silenzio dell’autrice, non l’ho sentito mio, non l’ho sentito di tutti.

L’accavallarsi dei diminutivi e di immagini prestampate e attinte da tanta letteratura nota, dà la misura di una fantasia limitata ai sentieri del déjà-vu che niente aggiunge e nulla toglie a tanta poesia convenzionale nostrana.

Un libro che poteva anche non essere scritto, senza infamia e senza lode.

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