La casa del gufo

La casa del guto

La casa del gufo

Di Mary Blindflowers©
La casa del gufo

Contorni ermetici, credit Mary Blindflowers©

Fausto Marchi esordisce per i tipi dell’Arduino Sacco Editore con un romanzo “dark”, specificando “romanzo gotico” sulla copertina.

Il tempo, come un caleidoscopio, genera immagini effimere, grafici irreali, geroglifici contorti ed ermetici che la nostra mente fatica a decriptare e a collocare correttamente in un preciso paradigma, in una logica sequenza cadenzata da un processo cumulativo. Poco di tutto quello che noi osserviamo riesce ad essere correttamente utilizzato a livello conscio…”

Il libro è stato forse pubblicato un po’ in fretta, qualche imprecisione stilistica che appesantisce il testo, rallentandone la lettura.

Nello stesso prologo: “I nostri neuroni, le nostre sinapsi, i gangli cerebrali accolgono segnali percettivi che trasformano in memoria che solo in parte viene mantenuta e utilizzata: spesso è un vuoto operare meccanico e ripetitivo che riempie le nostre giornate e le nostre azioni quotidiane!”. Forse sarebbe stato meglio snellire il periodo: “…segnali percettivi che trasformano in memoria solo in parte mantenuta e utilizzata…”, per renderlo più scorrevole.

L’autore ha sicuramente un bagaglio culturale non trascurabile, si intuisce dalla ricerca di termini desueti, sottilmente raffinati, dai riferimenti a tanta letteratura parnassiana o esoterica di ottimo stampo, tuttavia il suo sistema d’approccio alla letteratura, tradisce, purtroppo, un’eccessiva tendenza alla confessione. Scrive infatti: “Perché ho deciso di scrivere? Ebbene, forse ho voluto rendere note immagini, sensazioni, esperienze che, altrimenti sarebbero legate esclusivamente a un fattore anagrafico, transitorio, quale quello della mia esperienza terrena! Ma potrebbe essere il desiderio di perpetuare qualcosa di me, un episodio, l’ansia di condividere con altri quello che è stato – ed è – la coscienza di un’esperienza effimera ma determinante, fuorviante dalla monotona realtà quotidiana, dall’ossessione che ha torturato la mia esistenza per anni e della quale solo ultimamente mi sono liberato…”.

La scrittura purtroppo non è questo, non può essere definita come l’ansia di condividere o di sopravvivere a se stessi, di lasciare una traccia. Il vero scrittore non agisce, è agito, non decide, è deciso. Egli non parte mai da sé nell’elaborazione di un romanzo, che non è la compilazione di un diario. Succede invece che un’idea di trama gli schiocchi in testa all’improvviso mentre sta in auto o al bagno, mentre cucina o corre, quindi la scrive lasciando inesorabilmente tracce di sé, ma quasi inconsapevolmente, a livello inconscio, e soprattutto trascendendosi. Non esiste scrittura creativa senza trascendimento, senza l’assurdo e pur necessario superamento di sé stessi, perfino nelle opere autobiografiche.
Chunque può scrivere la storia della sua vita, descrivere la sua casa, il cibo che mangia, i suoi gusti, le sue abitudini sessuali, etc., ma la scrittura vera è qualcosa di più, è un volo pindarico in cui la fantasia si mescola e si bacia con l’ego in piccole dosi, in cui lo scrittore scrive per poi rileggersi e dire: “l’ho scritto io?”, una sensazione di esaltante stupore.

La casa del gufo” non riesce a volare in alto, troppo ancorato ai lacci di un sé greve e ingombrante, troppo terreno e personale. Fanno fede di questo i particolari, l’insistenza con cui si descrive il tipo di cibo ordinato al ristorante dai protagonisti o le descrizioni di Rosaspina, che vogliono creare un effetto di suggestione ipnotica senza riuscire però a bucare la superficie. “Capelli neri, meches blu, colorito diafano, occhi mesmerici, collant neri, tacco alto, giacca scura, rossetto scuro, un po’ Valentina di Crepax, un po’ elfa”, in poche parole il cliché della perfetta dark lady. Una descrizione tutta esteriore e abbastanza scontata. Un romanzo di 264 pagine che potrebbe essere svolto in un centinaio di pagine, troppo prolisso, lento. Il simbolismo pecca di eccessivi riferimenti ad autori noti come Lovecraft o Crowley, Papus, Kremmerz, che chiunque abbia mai letto libri esoterici conosce. Lo scrivente di fatto, non inventa niente di originale che possa trascinare e coinvolgere il lettore. Le descrizioni fisiche a volte sono ridondanti di particolari che si ripetono senza arricchire la trama di nuove connessioni. Niente di nuovo dunque.

Ho chiesto allo scrittore il motivo di uno stile così prolisso, mi ha risposto ingenuamente che il sintetico è banale. Ho sorriso. Secondo questo ragionamento preconfezionato, lo stesso simbolo sarebbe banale. Cos’è il simbolo se non un magnifica e polisemantica sintesi?

Le persone prolisse di solito poi sono quelle che hanno meno cose da dire. Non basta avere una cultura esoterica o mettere la parola “sangue” alla fine di ogni capitolo, per fare di un libro un romanzo simbolico, perché il simbolo buca atrocemente la superficie, che qui rimane intatta. I dialoghi sono banali, potrebbe scriverli chiunque abbia padronanza della lingua italiana, niente ironia, niente humor, introspezione scarsa.

Le descrizioni sono quasi notarili, senza pathos. L’autore eviscera la sua erudizione ma non fa esplodere genialità, scrive, ma non è uno scrittore e dimentica che non siamo più nell’ottocento. Una scrittura da rimpasto, senza uno stile personale che denoti originalità. Cultura ma niente genio.

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-psico-pillole/

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