Teresa Ciabatti, “la più amata” dagli italiani?

Teresa Ciabatti, “la più amata” dagli italiani?

Di Annamaria Bortolan©

Servi di scena, mixed media on paper by Mary Blindflowers©

Figlia del professor Lorenzo Ciabatti (1928-1990), primario dell’ospedale di Orbetello, Teresa Ciabatti, giornalista e autrice di romanzi non molto noti, ma apprezzata sceneggiatrice cinematografica e televisiva, questa volta sembrerebbe aver fatto centro. Seconda al Premio Strega, edizione 2017, con La più amata, rilascia interviste e partecipa a incontri letterari con una sincerità e una goffaggine disarmanti. E per goffaggine non ci riferiamo al suo essere un pochino in carne (brutta non è di sicuro) ma a quell’imbarazzante onestà che indoviniamo da uno sguardo abbassato, da una mancata fluidità lessicale che lascia trapelare l’ansietà che deriva dal ritrovarsi di botto al centro del palcoscenico mediatico. E le critiche, immancabilmente, non sono mancate.

Se abbiamo acquistato il suo romanzo “stregato” ciò è dipeso proprio dai tanti, sostanziosi, appunti che alcuni hanno mosso al suo stile oltre che alla storia narrata. E, segnatamente, dal fatto di essersi classificata al secondo posto, assicurandosi notorietà e vendite. Così abbiamo voluto saperne di più.

Moglie di uno sceneggiatore conosciuto quando frequentava la scuola Holden di Baricco era quindi abituata a respirare in famiglia l’odore affascinante della letteratura. Tutto avremmo potuto pensare meno che sarebbe automaticamente entrata a far parte dell’olimpo dei letterati dello Strega con un libro che si presenta come uno screditamento sistematico della figura paterna. Psicanalizzando volgarmente, verrebbe da pensare a un rapporto edipico, a un odio-amore derivante da problematiche irrisolte, anche perché il testo stesso sembrerebbe una sorta di memoir a metà tra la realtà e la fantasia, zeppo di elementi biografici ma anche di aneddoti del tutto inventati, una confessione proclamata ai quattro venti, nel tentativo di cercare se stessa, oltre che la verità su un padre massone, fascista, ateo, bugiardo e privo di morale, così come viene raccontato nel romanzo. L’originalità di questa auto-fiction è tutta lì: nello stigmatizzare una mancanza (di sincerità, di onestà, di autentica generosità) di un uomo arrivato ai vertici del potere e della ricchezza, circondato da personaggi servili, disposti a tutto per ottenere un aiuto. Un quadretto disgustoso di un’Italia corrotta e becera, dove è possibile che in un ospedale pubblico vi sia un viavai di pazienti che sommerge il primario di regali di ogni genere, dove anestesisti e radiologi fanno a gara per trasformarsi in imbianchini, autisti, muratori pur di accontentarlo e ottenere qualche vantaggio personale; un uomo che “ha fatto laureare a Catanzaro (dei ragazzi n.d.r.) per poi assumerli in ospedale. Ragazzi della zona, figli di amici di amici (…) Così anche per gli infermieri che, dopo il corso interno, sceglie lui personalmente” (pag. 16), un uomo che, già ricco di suo, non riesce a fare a meno di controllare ossessivamente le spese familiari, irritandosi per una lampadina lasciata accesa, convinto di essere un “uomo superiore”, al di sopra di tutti i comuni mortali. La ricerca di Teresa, pagina dopo pagina, sposta il fulcro di attenzione del lettore dall’insigne professor Ciabatti a se stessa. Ma da questa ricerca esce smarrita: “Teresa Ciabatti, rassegnati, non sei tu la protagonista di questa storia, non sei protagonista di niente” (p. 217) ,afferma, chiudendo in questo modo il cerchio. Lei non è nessuno.

Nel risvolto di copertina la casa editrice Mondadori sottolinea: “Con una scrittura densa, nervosa, lacerante, che affonda nella materia incandescente del vissuto e la restituisce con autenticità illuminandone gli aspetti più ambigui, Teresa Ciabatti ricostruisce la storia di una famiglia e, con essa, le vicende di un’intera epoca”. In realtà il vero centro di gravità della narrazione è dato dalle questioni familiari. Tutto quello che ruota attorno, politica, storia, costume, è nominato, accarezzato, sfiorato ma non approfondito e sviscerato a meno che non si vogliano considerare come approfondimenti le notarelle a pie’ di pagina, contrassegnate da asterischi, che sembrerebbero provenire da un’attenta consultazione di Wikipedia. Il testo incorpora tali spunti solo marginalmente, a nostro modesto avviso, ma è prodigo di particolari in relazione alle questioni della sua famiglia (date di nascita e di morte, parentele, indirizzi, ecc. che nemmeno una biografia di Napoleone proporrebbe ad un ritmo tanto sostenuto). La Ciabatti-dinastia è attraversata in tutto il suo fulgore, senza sviste né dimenticanze.

Non mancano le ripetizioni, volute e cercate. “Venditore porta a porta, rappresentante, testimone di Geova” (pp. 22 e 50), riferito prima al padre che, all’epoca in cui viveva in America, aveva vinto in una riffa un servizio di posate contenuto in una valigetta e se l’era portata a casa infischiandosene della volontà della sua ragazza di tenerla per sé, e poi alla madre dell’autrice che l’avrebbe ricevuta in regalo tempo dopo. Non che sia vietato ripetersi a distanza di alcune pagine (e qui possiamo intravedere un qualche barlume di ironia) ma l’accostamento col venditore porta a porta o col predicatore è davvero così tanto ben riuscito e pregno di significati da dover essere ripetuto o è una semplice banalità?

Non manca qualche spunto poco felice:

“Pronto, posso parlare con Teresa?”

“Teresa chi?”

“Ciabatti”.

“Questa non è più casa Ciabatti”.

“Questa non è più casa Ciabatti”.

“Non è più casa Ciabatti”.

E la manina all’altro capo riattacca la cornetta del telefono gatto (Pag. 184).

Anche se, qua e là, si ritrova qualcosa di veramente gradevole, questa piacevolezza non abita ogni pagina del romanzo e sembrerebbe riservata a pochi istanti perfetti: “Addormentata nel 1978, mia madre si sveglia nel 1979. Dalla finestra oblò il cielo chiarissimo, primavera. Mamma, mamma! Le saltiamo addosso. Guarda, mami, i denti nuovi, tre, e i capelli lunghissimi, e i quaderni di scuola. E le scarpe di vernice, e la cicatrice sulla fronte – l’abbracciamo – e la medaglia d’oro! Io ho fatto la pallina di neve, mami – la stringiamo forte – guarda la foto, e le pagelle, sai cosa vorremmo noi, mamma? Un pesce rosso, ti prego…

Lei c’interrompe. Ci scosta per guardarci bene. Come siete grandi, dice, le viene da piangere. Vi siete fatti grandi” (pag. 204).

La forza di quest’autrice sembrerebbe davvero essere condensata nelle ripetizioni:

Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre. Diventa la mia ossessione” (p. 33); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia del Professore” (p. 79); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho sette anni, e ho appena scoperto che mia nonna porta la parrucca” (p. 84); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho undici anni e oggi è il mio primo giorno di scuola media” (p. 90); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, mio padre è morto da ventisei, mia madre da quattro” (p. 207); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni e voglio sapere chi era mio padre. Mi chiamo Teresa Ciabatti e mi giro e mi rigiro nel letto” (p. 210); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e scopro chi era davvero mio padre” (p. 213); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni e non trovo pace” (p. 215); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni. Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho dieci anni, nove, otto, sette, sei, non mi sono mai mossa da lì” (p. 216); “Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, quarantanove, cinquantasei. Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho sessantun anni, gli anni di mio padre quando è morto” (p. 217).

Che dire? Che la letteratura non di rado si sforza di adeguarsi ai contenuti che racconta. Ossessioni, ansie, compulsioni, la madre di Teresa che per una depressione latente viene ospedalizzata in casa e fatta dormire forzatamente per un anno a colpi di psicofarmaci, un ambiente di ipocrisie e servilismi che non poteva essere raccontato che con una scrittura frammentata, in cui un sintagma viene accostato velocemente all’altro nel tentativo di dare un’idea di nervosismo, talvolta riuscendoci, talaltra appesantendo la scorrevolezza del testo. Un esperimento di scrittura che se fosse stato proposto da un autore poco conosciuto, e non da un’autrice candidata a diventare una delle scrittrici più amate dagli italiani (non foss’altro che per il piazzamento allo Strega) non avrebbe goduto della medesima accoglienza editoriale.

Ma ormai lo abbiamo capito: si chiama Teresa Ciabatti. E lei può.

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