Ghostbusters velocità e lentezza

Ghostbusters velocità e lentezza

Ghostbusters velocità e lentezza

Di Mary Blindflowers©

Rosa evanescente, foto Mary Blindflowers©

Ghostbusters è un film del 1984. I tre dottori protagonisti che studiano fenomeni di parapsicologia, Peter, Ray ed Egon, mettono su una singolare attività, quella di acchiappafantasmi a pagamento. Con sofisticate apparecchiature, tipo uno “zaino protonico”, riescono a mettere in trappola spiriti ed ectoplasmi.

Un’invenzione cinematografica anni ’80? Sbagliato.

Nel 1937 la Hoepli pubblica la prima edizione italiana di un curioso volume, “A caccia degli spiriti”. L’autore, Harry Price, studioso di fenomeni medianici, è un acchiappafantasmi in piena regola con tanto di borsa ed armamentario ad hoc: “un paio di soprascarpe di feltro soffice, un flessimetro d’acciaio, degli occhiali a vite, dei sigilli di piombo con relativa tenaglia, della fettuccia bianca, martelletto e chiodi; un rotolo di filo elettrico, delle piccole sonerie elettriche… e degli interruttori per contatti elettrici segreti…etc.etc”.

Con la sua brava borsa si reca di persona nelle case “infestate”, osserva, attende gli eventi, raccoglie prove, assiste a fenomeni poltergeist, intrepido veglia, si interroga, arriva a conclusioni non definitive. Il libro, corredato di belle foto d’epoca, è sicuramente fruibile ancor oggi, scritto con un linguaggio scorrevole e divertente. Svela anche alcuni “trucchetti”.

Price non ha certamente la pretesa di rispondere a questioni filosofiche di importanza capitale. “Dove andremo alla nostra morte?”. Nessuno lo sa, neppure l’autore del libro che confessa candidamente: “Per trent’anni non ho fatto che ricercare affannosamente delle prove di ciò che avviene dopo la morte, ma la soluzione di questo problema eterno mi sfugge ancora”.

La scienza, come diceva fin dal XVII secolo, il filosofo di Port-Royal, riferendosi all’Esprit Geometrique, non spiega tutto. Esiste una dimensione dello spirito, del metafisico, un Esprit de Finesse, che è piano ultrasensibile.

Metafisica e scienza si intersecano, si scontrano a volte, ma veli di mistero permangono.

Dopo aver letto libri come quello di Price ci si interroga sull’etica dello stordimento, del movimento a tutti i costi, il mito dell’iperattività.

Perché un uomo va in giro con una borsa piena di strumenti assurdi dichiarando di voler acchiappare fantasmi? Cosa si vuole dimostrare? Che esiste l’indimostrabile? D’accordo. Lo sapevamo già. Perché stordirsi correndo da una parte all’altra ad inseguire chimere? Un modo come un altro per non pensare?

Price si diverte nel dare la caccia ad ectoplasmi. Il senso qual è?

L’essere si aliena nel movimento, dimenticando se stesso?

Non siamo più capaci di riflettere chiusi dentro una stanza. Lo sapeva bene Pascal nella sua lotta contro il divertissement.

Lo svago distrae dal punto centrale. L’uomo è fragile, in balia di un mare tempestoso, si aggrappa a scogli scivolosi pur di sfuggire ai fantasmi della propria interiorità. La morte è un incidente di percorso, un accessorio fastidioso, un ombrello scuro da dimenticare ad una stazione ferroviaria, salvo poi tornare a quella stessa stazione e ritrovare l’oggetto smarrito. Nessuno lo ha voluto, né afferrato. Si acchiappano fantasmi come se fossero cose vive, è una ribellione alla signora con la falce. Da una parte all’altra, correre, senza fiato. La velocità è l’oblio, l’occultamento dell’infelicità, mai fermarsi. Chi si ferma è perduto. Ma è veramente così?

Dall’altra parte c’è la lentezza, gesti calmi, misurati, filosofi controllati, che meditano sul sé e trovano che l’infelicità scongiurata con la contro-etica del movimento, non è mai morta, esiste e si fa sentire non appena ci si ferma. Dove sta dunque la soluzione?

Una domanda che può avere più risposte a seconda del punto di vista.

Secondo alcuni la risposta è la fede, secondo altri l’uomo stesso.

La differenza tra Pascal e Cartesio.

Si può camminare veloci, inseguire lepri e fantasmi per dimenticare il dolore, ma si può anche morire di lentezza, nel chiuso di una stanza la noia centellinata attimo dopo attimo può assumere la concretezza mortifera di un boia e meditare sul dolore non aiuta certamente a sconfiggerlo. Se così fosse i filosofi e poeti sarebbero tutti molto felici.

Il dolore è ineliminabile, non c’è niente da fare. A nulla valgono meditazioni, contorsioni, introspezioni, filosofie, anacoretismi, solitudini, compagnie, chiasso, silenzio, velocità e lentezza, ricchezze e povertà.

La ricetta per guarire l’infelicità non esiste o non è stata ancora inventata.

Rumore, silenzio, velocità, lentezza. Tutto spinto all’estremo. Troppo rumore, assordante nelle città, impedisce di sentire i battiti del cuore. Anche il troppo silenzio a lungo andare arrugginisce l’anima in un lago di complicate egoistiche introspezioni. Velocità obliosa ma pericolosa, ci si schianta, si finisce con l’uccidere sé stessi e gli altri in una prospettiva alienante. Troppo lento rischia l’irrigidirsi in atteggiamenti primitivi, di bloccare il traffico causando ingorghi.

La virtù sta nel mezzo? Forse. La negazione completa del divertissement è surreale. La stanza chiusa serve per pensare nel silenzio, ogni tanto però conviene uscire fuori o aprire una finestra per far entrare il mondo e sentirne i rumori.

Non si vive di solo pane, ogni tanto val bene la pena di assaggiare qualche brioche, pur senza avere il cinismo della Regina di Francia. Se poi tra una brioche e l’altra ci accorgiamo che esiste la morte, evitiamo di farne una malattia, tanto non possiamo farci niente.

Permettiamoci dunque il lusso di leggere Harry Price senza sensi di colpa, esercitando il cartesiano cogito e ripromettendoci domani di sfogliare un testo più profondo.

Non tutto deve avere per forza un senso.

Anche la superficie ha una sua poesia.

Perfino gli animali amano il superfluo, perché non dovremmo amarlo noi?

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Manifesto Destrutturalista contro comune buonsenso

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