Machiavelli (parte III), borghesia

Machiavelli (parte III), borghesia

Machiavelli (parte III), borghesia

Foto Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Machiavelli (parte III), borghesia

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La storia non è acqua fresca che scorre ma pozzanghera di contraddizioni. Il passato condiziona sempre il futuro.

La miserevole acquiescenza della borghesia al papato è di lunga data. Quando il Papa espulse i bizantini dall’Italia, la borghesia tacque, quando eliminò i Longobardi rei di non volergli cedere il Ducato romano, La Pentapoli e l’Esarcato ravennate, nessuno si oppose.

Certo, la borghesia ha eliminato lo Stato della Chiesa, tuttavia, essendo molto lontana dal concetto di reale democrazia, ha voluto concedere alla Chiesa di sopravvivere con l’abominio dello Stato del Vaticano, una parte di territorio che può ignorare completamente le leggi dello Stato italiano, 44 ettari che hanno un enorme potere nazionale ed extra-nazionale, il mostro partorito dal ventre di una pavida e antidemocratica, molle ed astuta classe borghese, la debolezza più grave del nostro stivale di cartone ben pressato.

Anche volendo essere indulgenti con Machiavelli che comunque fu critico nei confronti del pretame e si salvò dalle maglie dell’inquisizione grazie alla protezione dei Medici, ci si chiede comunque dove fosse questa borghesia laica e progressista, tanto osannata da certi storici contemporanei, dove gli ideali politicamente democratici bruciati al fuoco dei sacri altari di una nazione come l’Italia rimasta sottilmente teocratica, falsamente bigotta e davvero poco attenta ai bisogni delle masse.

Così grazie alla borghesia ci ritroviamo due Stati nello Stato, mafia e Vaticano, consentiti, accettati, spesso esaltati come elementi involutivi naturali e necessari.

Una dipendenza crudele, dunque, degli italiani dal potere. La mentalità mafiosa si è insinuata assieme al dio del Papa, nella coscienza collettiva, ha plasmato le menti, le ha rese succubi all’idea un tempo propagandata dai gesuiti ma sempre valida: “quando un superiore afferma che il nero è bianco e il bianco è nero, il sottoposto deve accettare il concetto senza esitazioni”.

E senza esitazioni gli italiani di oggi accettano la longa manus del potere, imbalsamandosi in posizioni antidiluviane dalla sconcertante bigotteria catto-misogina.

La cultura dominante cattolica impone modelli, comportamenti morali e un tipo di “sotto-cultura” che segue le indicazioni del Papa, spesso anacronistiche e completamente indifferenti alle trasformazioni del tessuto sociale, del progresso, dei diritti delle donne.

D’altra parte ci sono coloro che si definiscono “contro”.

Anche in questo caso occorre mostrare cautela.

La controcultura quasi non esiste più, se non in pochi intellettuali isolati.

Affermazione forte, certo, ma vera.

I seguaci della cosiddetta controcultura, che si propone come svecchiamento e innovazione, sono spesso blandi imitatori degli scrittori hippies, si dichiarano atei, liberi ed anarchici, senza rendersi conto che spesso creano dei circoli chiusi in cui è ammesso soltanto chi non esprima idee di libertà trasversale. Vige il monopensiero. La controcultura si è atrofizzata a sua volta in circoli di potere che ammettono un pensiero unico in linea con le imposizioni di un Super-ego definito a torto, alternativo. Coloro che pomposamente si dichiarano eredi della beat generation, a loro volta seguono la moda imposta, ostracizzando qualsiasi posizione di critica al loro operato. Intellettuali autoreferenti che lungi dal combattere il sistema borghese, lo alimentano inconsapevolmente, etichettandosi ed eliminando ogni possibilità di contraddittorio. Così si parla di anarchia con i jeans strappati da 250 euro comprati alla boutique, i nuovi “contro” si atteggiano ad intellettuali progressisti ma non ammettono che qualcuno la pensi in modo differente da loro. Fanno gruppo, setta, aderiscono con entusiasmo alle ideologie spesso superate dei partiti di sinistra.

Possono essere definiti ironicamente “sinistrati”, i falsi liberi spesso figli di professionisti, nuovi borghesi che fingono progresso e ti chiamano ancora “compagno” sancendo con prepotenza un’appartenenza che magari non senti. Sono quelli che dicono che il comunismo non è una dittatura ma una cosa bella, da vivere insieme, sono quelli che postano foto sui socials con il pugno chiuso, facendo immediatamente capire al potere da che parte stanno, quelli che non avendo potuto, per motivi politici, raggiungere il potere in Parlamento, occupano posti importanti nei sottopoteri, università, scuole, editoria.

Sono i raccomandati di partito che diventano editors di importanti case editrici con una bella tessera e un sorriso stampato sulla faccia.

Da una parte la cultura cattolica, quella che invita i cardinali alle Fiere del libro, quella che stampa i libri di Bruno Vespa, quella che ti fa entrare nella televisione di Stato, quella che fa pubblicare scrittori di dubbio talento purché iscritti ad un’associazione cattolica, dall’altra la pseudo-controcultura che si definisce a torto anarchica, figlia di una borghesia viziata e perversa, spesso più perversa dei catto-bigotti.

Poi ci sono gli omofobi dichiarati, quelli che io chiamo “addestrati”, inneggianti al Duce in epoca contemporanea. Quelli che se potessero farebbero tornare in vita il dittatore, rianimandone il corpo a Piazzale Loreto, gli amanti dei totalitarismi e delle posizioni estreme che non sopportano contraddizioni, gli eredi di Mussolini e Hitler che hanno monopolizzato Machiavelli, adattandolo alle loro esigenze e sono spesso anche ferventi cattolici.

Circoli viziosi, lame di potere che si insinuano dappertutto.

La cultura è ormai soltanto una questione di appartenenze e di clientelismi. La politica ridotta a meri scambi di favori. I comportamenti clientelari che si mantengono astutamente sul filo della legge violando però qualsiasi etica, giustizia e meritocrazia, sono causa di degrado e arretratezza culturale ed economica. L’eliminazione sistematica della meritocrazia e dell’onesta selezione, crea situazioni kafkiane che convincono il comune cittadino che solo aderendo ad un certo sistema di pratiche do ut des, può salvarsi dal naufragio in un mare di disperazione. Il clientelismo si è insinuato profondamente nei gangli della democrazia corrotta italiana, è diventato così diffuso a tutti i livelli, da essere vissuto dalla massa come “normale”.

Scrive Briquet:

Il concetto di “clientelismo” indica un preciso rapporto tra individui: un legame personalizzato tra persone “appartenenti a gruppi sociali che dispongono di risorse materiali e simboliche di valore assai ineguale, basati su scambi durevoli di beni e servizi”1.

1J. L. Briquet, Clientelismo e processi politici, in «Quaderni storici» XXIII, 1998, Fasc. 1, p. 9.

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Rivista Il Destrutturalismo

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